La Stampa, 4 agosto 2019
Biografia di Miloš Forman
Devo l’amicizia con Miloš Forman al fatto di aver condiviso per un breve periodo lo stesso agente. Ovviamente io rappresentavo l’ultima ruota del carro e Miloš la punta di diamante, ma il titolare dell’agenzia, Robbie Lantz, aveva il talento di farci sentire tutti allo stesso livello. Robbie era un ebreo tedesco fuggito poco prima della guerra, Miloš un ebreo boemo che aveva scoperto la libertà negli Stati Uniti dopo aver conosciuto sulla propria pelle il nazismo e il comunismo. Era uno spettacolo vederli insieme: accentuavano l’accento europeo, per gioco e per orgoglio, e parlavano per ore di un mondo meraviglioso che tuttavia aveva generato mostri che li avevano costretti a fuggire.
«Mostri», dicevano proprio così, e Miloš non riusciva a capacitarsi che l’uomo finisse per venerare, ancor prima che «ideologie portatrici di dolore», un’entità astratta come lo Stato: «e l’uomo stesso che lo ha creato per servirsene, ma finisce costantemente per diventarne servo». Il padre era stato ucciso durante un interrogatorio della Gestapo, e la madre era morta ad Auschwitz, ma riteneva che il comunismo non rappresentasse molto di meglio rispetto al nazismo, e fosse anzi per molti versi più insidioso, proprio per via degli ideali di giustizia sociale. Ne parlava raramente, ma lo sguardo rivelava quanto avesse sofferto, specie quando diceva «ho il diritto di divertirmi». Un giorno mi raccontò che «tra i primi atti che fecero i nazisti e i comunisti quando governarono la mia terra ci fu la guerra ai pervertiti e ai pornografi. Ognuno applaudì, ma nel giro di poco tempo furono considerati pervertiti Shakespeare, Hemingway, e poi persino Gesù…».
Spalancava gli occhi quando raccontava queste cose, e compresi solo allora perché aveva fatto un film che difendeva i diritti di un pornografo come Larry Flynt. Viveva in un bell’appartamento su Central Park, e quando era nervoso si affacciava sul parco, che vedeva come una conquista: «L’ho acquistato quando giravo Hair: mi divertiva l’idea di vivere a pochi metri dal set. Tutto questo è inconcepibile per chi vive ancora nella mia terra, e io non posso che provare una profonda gratitudine per un Paese che mi ha accolto e celebrato». Una volta gli dissi che nei suoi film aveva criticato ripetutamente l’America, spesso con durezza, e lui mi rispose semplicemente: «Perché è un Paese libero, e sono grato soprattutto per questo».
Aveva trionfato agli Oscar due volte, con Qualcuno volò sul nido del cuculo e Amadeus, ma amava parlare dei film girati quando viveva ancora a Praga, come Gli amori di una bionda, chiedendosi cosa fosse rimasto, nei suoi film americani, dello spirito degli esordi. Un giorno gli feci notare che spesso i suoi protagonisti erano dei ribelli, e lui mi gelò con una risposta sorprendente: «La verità è che nell’intimo sono un vigliacco: quei personaggi sono proiezioni di coloro che vorrei essere e in realtà non sono».
Era stata l’invasione sovietica del 1968 a convincerlo a abbandonare il proprio Paese, ma quella decisione lo avvicinò ancora di più agli amici con cui aveva studiato sotto «un’oppressione tragica che aveva i lineamenti dell’ottusità»: il grande direttore della fotografia Miroslav Ondricek, i registi Ivan Passer e Jerzy Skolimowsky e il drammaturgo Vaclav Pavel, che sarebbe diventato primo ministro della libera Repubblica Ceca. Per non parlare di Milan Kundera, che in un racconto narra di un personaggio che si fa passare per Miloš.
Per spiegare il concetto di ottusità di un regime liberticida, mi ha raccontato un aneddoto relativo a Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, il suo film preferito: «Invece di comprendere e apprezzare la fusione mirabile di realismo e magia di quel capolavoro immortale, i grigi burocrati del regime decisero di censurare il film con la motivazione che nel finale i poveri volano verso Occidente: basterebbe questo per spiegare come quella dittatura avesse ucciso non solo la libertà ma anche l’intelligenza».
Quando cominciammo a frequentarci aveva appena smesso di insegnare alla Columbia University, dove era diventato preside della facoltà di cinema, e aveva avuto da poco una seconda coppia di gemelli dalla moglie Martina. I primi due, nati da una precedente moglie, avevano ormai raggiunto i trent’anni, e dopo aver lavorato nel teatro erano diventati artisti circensi: «Non avrei mai pensato che il mio nome fosse associato a un circo, ma Petr and Matěj sono pieno di talento e passione, e il circo Forman è il più popolare del mio Paese». Alla seconda coppia di figli decise di dare i nomi di Andrew e James in onore di Andy Kaufman e Jim Carrey: Man on the moon è uno dei film che prediligeva, come anche Larry Flint, e non si capacitava che non avessero avuto lo stesso successo dei suoi film più celebri. Tuttavia, quando parlava di Amadeus diceva che «siamo tutti, nessuno escluso, dei Salieri» e che non c’è «nulla di meno definibile della follia, come ho cercato di raccontare in Qualcuno volò sul nido del cuculo».
Per quanto prettamente americana, l’ambientazione opprimente fa pensare subito al clima del regime sovietico, e Miloš spiegava che la terribile Mrs. Ratched ne era «la totale impersonificazione, con il finto sorriso, sempre lì a dirti cosa bisogna fare e persino a spiegarti chi sei: è la degenerazione di tutto ciò che ci rende esseri umani». In origine aveva pensato come protagonista a Kirk Douglas, che aveva opzionato i diritti del libro di Ken Kesey, ma poi fu il figlio Michael a realizzarlo come produttore, e fu entusiasta della scelta di Jack Nicholson.
Il cinema americano ha sempre rappresentato uno dei modi in cui si è declinata la libertà del Paese: oltre al capolavoro di De Sica, citava tra i film fondamentali della sua vita opere diversissime e straordinarie quali Quarto potere, American Graffiti, Il cacciatore, Toro scatenato e Il Padrino. È proprio in virtù di questo spirito di libertà che si è appassionato a progetti molto lontani dalla sua sensibilità, quali ad esempio Basic Instinct, che avrebbe dovuto dirigere, prima che la major opzionasse Paul Veerhoeven, più affidabile da un punto di vista commerciale.
Non c’era cosa che non condividesse con Martina, la moglie della maturità, che gli è rimasta accanto sino alla fine: prima di lei Miloš ha amato molte donne, tra le quali Aurore Clément con cui ha vissuto a lungo. Con Martina gli si smussava ogni durezza, e a volte ti sorprendeva per la tenerezza con cui la corteggiava dopo tanti anni di matrimonio. Fu lei a chiedergli una volta di parlare delle scene di cui era maggiormente fiero. Dopo averci pensato Miloš raccontò la sequenza di Qualcuno volò sul nido del cuculo in cui Nicholson fa una telecronaca immaginaria dopo che Mrs. Ratched impone che venga spenta la televisione. Poi quella di Amadeus in cui Mozart morente detta il suo Requiem a Salieri, e quest’ultimo capisce, con un misto di odio, ammirazione e invidia, quanto sia geniale e superiore il suo rivale. «Nella prima celebro la libertà, nella seconda l’arte», disse, e poi concluse: «Due facce della stessa medaglia».