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 2019  agosto 04 Domenica calendario

Intervista a Ginevra Bompiani. Parla di suo padre, di Manganelli, di Borges,di Siciliano e della crisi dell’editing

Castelnuovo Berardenga (Siena) Il casolare in pietra nella campagna senese dove Ginevra Bompiani trascorre le estati ha un’aria di linda e ordinata attesa, come tutti i luoghi che si preparano a qualcosa. Tant’è. Domani sera arriveranno più o meno cinquanta persone, «soprattutto amici, ma stavolta anche qualche parente», e verranno serviti pesci, cous-cous e dolci. Per la scrittrice ed ex editore, figlia del grande Valentino, saranno ottant’anni carichi di ricordi, persone, aneddoti. Eppure questo arsenale di memorie intime difficilmente affiora dai suoi libri, nei quali lei preferisce dare robustezza ai ritratti degli altri, riparando il proprio privato dietro la timidezza arresa di chi ha trascorso una vita in mezzo a figure come Calvino, Morante, Pasolini. Come editore, traduttrice, amica e critico.
Persino in «Mela zeta», una galleria di ritratti e memorie uscita nel 2016 per nottetempo, lei parla poco di sé stessa.
«Questione di sguardo. Io ho trascorso praticamente tutta la vita a cercare di imparare a scrivere. E ho concluso che più ci si sottrae e meglio si inquadrano le cose. Anche nel nuovo libro, L’altra metà di Dio, in uscita a fine agosto per Feltrinelli, parlo, tra l’altro, di miti: ci raccontano forse meglio dei dati autobiografici».
Un «sottrarsi» letterario, il suo, che si accompagna a un singolare ardore solitario nelle battaglie civili.
«Sì, battaglie quasi personali. Come quando andai nella Sarajevo sotto assedio per occuparmi della biblioteca. O prima, quando mi impegnai in difesa del filosofo Aldo Braibanti, arrestato nel 1964 con l’accusa di aver plagiato un 21enne e convinsi mio padre a pubblicare un libro con contributi di intellettuali come Eco e Moravia».
Suo padre che, in fondo, era il suo «capo» alla Bompiani. Difficile?
«Difficilissimo, ma non solo per me: lui voleva, sì, i familiari in casa editrice ma al tempo stesso non voleva passare per nepotista e basti pensare che io, a soli vent’anni, venni messa a correggere le voci del Dizionario sotto la guida di Paolo De Benedetti. Ricordo la prima voce da rivedere: era su Carlo Cassola. Ma non era solo quello. Papà ci allevava con un rigore singolare. Pensi che, un po’ scherzando e un po’ no, diceva alla mia tata che le avrebbe dato una ricompensa se lei mi avesse aiutato a farmi male. Voleva temprare sia me che mia sorella».
Ci è riuscito?
«Non so. So solo che io da sempre faccio tutte le cose di cui ho paura».
Giorgio Manganelli le disse: «Sei ingiustamente infelice per non assumerti l’infelicità che ti spetta». Aveva ragione?
«Certo, Manganelli aveva sempre ragione. In queste parole c’era una “mazzata” nei miei confronti: diceva che io mi creo false infelicità per non fronteggiare quelle vere. Dopo quattro psicanalisi e un lungo corso di studi in psicologia, penso di aver trovato una buona copertura delle cose infelici, copertura che coltivo e apprezzo: l’illusione. L’illusione non è speranza, né sogno, ma è una forza che mantiene sempre il sospetto di una realtà non all’altezza, una forza che se si sgretola poi si può ricomporre e permette di ripartire. Altra cosa, questa sì disprezzabile, sono le piccole illusioni».
Curioso il ritratto che lei fa di Manganelli: una scrittura anticonformista in una personalità quasi maniacale nella sua routine.
«Mangiava sempre alle otto meno un quarto, senza deroghe. Una volta i Calvino lo invitarono, la cena era alle nove ma lui arrivò presto, si mise a tavola alla sua ora, mangiò da solo e poi se ne andò. E questo è niente rispetto all’episodio su Borges».
Lo racconta?
«Borges arrivò in Italia provocando una frattura tra gli intellettuali: rendere omaggio all’immenso scrittore oppure sottolineare le sue simpatie per le dittature militari latinoamericane? Ne parlai con Manganelli, che subito si accese col dire che lo scrittore andava separato dalle idee politiche, eccetera. Ma quando gli dissi che Borges e Adolfo Bioy Casares avevano fatto cadere nel nulla alcuni progetti cinematografici con un mio amico, lo vidi cambiare colore. Manganelli andò su tutte le furie e disse che no, non si doveva andare da Borges, perché insomma non ci si comportava in questo modo. Ho riso molto, dopo».
Anna Maria Ortese se la prese molto per un suo ritratto da lei fatto su una rivista.
«Mai quanto Enzo Siciliano quando stroncai uno dei suoi libri. Ma il vero dolore, per me, arrivò quando criticai Il lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi. Non era una stroncatura, era una lettura con rilievi. Io ero molto amica di Paolo e di sua moglie Giovina: dopo quell’articolo, non li ho più sentiti né visti. Fine dell’amicizia. E il rimpianto di non aver parlato con lui prima che morisse mi ha accompagnato a lungo. Poi ho smesso di fare recensioni: se ne parli bene sembra piaggeria, se ne parli male ferisci. Oggi, poi, c’è poco da stroncare».
Perché dice questo?
«Perché in queste figure letterarie la scrittura non era una cosa secondaria: era la vita stessa, faceva male, creava mondi. Oggi per moltissimi autori la scrittura è solo un aspetto della vita. Vedo meno consistenza e tanto, troppo editing. La sensazione è che si scrivano libri nella convinzione che, tanto, poi, ci pensa l’editor a metterli a posto. Per non parlare dello strapotere degli agenti: sono tanti e agguerriti».
Perché nel 2002 ha fondato la casa editrice nottetempo con Roberta Einaudi?
«Per fare il lavoro di mio padre, a una buona distanza dalla sua morte. Alla Bompiani ho imparato a fare tutto, dall’editing alle traduzioni. Quando io e Giorgio Agamben creammo la collana “Il pesanervi”, dovetti diventare autonoma e pensare a ogni dettaglio, perché non potevo gravare sulla casa editrice, volontà di mio padre. Era la prima collana di letteratura fantastica in Italia, in un periodo, gli anni Sessanta, in cui questo genere era considerato di destra. Non fu un lavoro facile».
Quante voci o potenziali voci ha spento l’intransigenza ideologica nella letteratura italiana del secolo scorso?
«Molte. Ma è stato un ricorrersi di dominazioni diverse, per natura e per sensibilità. Quando c’era il Gruppo 63 autori come Moravia venivano criticati. Oppure finché è stato vivo Montale, persino grandi poeti come Luzi e Caproni sono stati in qualche modo oscurati. Io poi di Caproni ero amica e quando lo vedevo più impacciato rispetto a Luzi nelle occasioni ufficiali, ci soffrivo».
Nel ritratto che lei fa di Elsa Morante, sembra di vedere una persona insicura.
«Macché. Non andava in Russia perché lì non traducevano i suoi romanzi. Era molto sicura di sé anche se l’ho vista spesso disperata, per esempio alla notizia della morte di Pasolini. Pier Paolo aveva stroncato La Storia: per Elsa era stato un duro colpo ma l’affetto per quell’uomo era più forte. Nella clinica dove Morante stava morendo incontrai anche Moravia. Non stavano più insieme, eppure Alberto andava ripetendo: “Il nostro è stato un matrimonio felice, lungo e fortunato”. In fondo, lo capisco».