Corriere della Sera, 4 agosto 2019
Intervista a Giorgio Armani Parla di vino, di amori e di bombe
Un calice di vino dorato apre la porta dei ricordi di Giorgio Armani. È il suo vino. Si chiama Oasi, viene da Pantelleria, dove re Giorgio è in vacanza, nella villa con 7 dammusi e 180 palme. Armani ricorda e scrive, e il bicchiere resta pieno. A 85 anni appena compiuti, non beve più. Ogni giorno si esercita in palestra e lavora molto. Mangia poco, ma controlla ogni dettaglio del suo impero del cibo: 20 tra caffè e ristoranti. Compresi i milanesi Nobu (dove resta sempre libero per lui il tavolo 99), l’Armani all’ultimo piano dell’hotel, e l’Emporio da poco rivoluzionato. Il piatto del cuore, i tortelli della mamma, lo trasporta nel suo mondo da bambino. Quando a Piacenza venne colpito da una bomba della Grande guerra, trovata in un campo. Quando morì il suo primo amore, una ragazzina «dagli occhi esotici», travolta da un camion. Ora ha capito: «Ero un combattente, ho avuto coraggio, me ne accorgo soltanto adesso».
Quando ha deciso di produrre vino a Pantelleria?
«È stata un’idea inaspettata, cresciuta senza quasi me ne accorgessi, come una radice che affonda nel terreno e un giorno fiorisce. Una ventina d’anni fa, ho comprato dei terreni da aggiungere alla casa. E mi sono detto: voglio provare a coltivare delle viti. Le ho fatte arrivare, piantare e oggi vedo i risultati».
Perché un passito?
«Perché le viti producono uva di Zibibbo. E poi perché è un prodotto tipico di Pantelleria, che racchiude tutto il suo sole ed è conosciuto nel mondo».
Cosa vuole evocare con il nome Oasi?
«La suggestione del riposo, della solitudine, dell’incontro con gli amici. Oasi si chiama uno spazio dove amo cenare nella mia casa. È uno spiazzo che ho ricreato ombreggiandolo con le palme più alte dell’isola, che provengono da Villa Tasca, Palermo, e che si affaccia sulla vista aperta del mare».
A casa, quando viveva con i genitori, si beveva vino? Quale?
«Si beveva pochissimo, soprattutto vini piacentini. A mia madre ne piaceva uno che gode oggi di buona fama, il Gutturnio».
Cosa ricorda dei pranzi di famiglia?
«I primi ricordi sono legati alla figura di mia madre, che cucinava per tutti noi. Erano i suoi cibi del cuore, pietanze semplici, con qualche concessione appetitosa nei giorni di festa. Mi viene ancora in mente il profumo della frittata che aveva preparato per noi ragazzi una volta che andammo in gita al lago. È stata questa sua capacità di rendere tutto naturale e allo stesso tempo speciale a guidarmi sempre, anche quando le scelte di lavoro sono diventate più difficili. Come aprire i miei locali e ristoranti, e dare un’impronta di gusto italiano anche alla cucina».
Quali sono i piatti del cuore?
«C’è un piatto che riunisce la mia preferenza assoluta, il ricordo della mia infanzia e le mie radici: i tortelli alla piacentina, che qualcuno impropriamente confonde con i ravioli di magro. Sono delicatissimi, da condire solo con burro appena fuso e parmigiano. I migliori in assoluto erano quelli che preparava mia madre: ho ancora davanti agli occhi la sua espressione soddisfatta mentre li portava in tavola. I pranzi domenicali preludevano al tanto desiderato momento in cui mio padre si lasciava convincere da me e da mio fratello e ci annunciava: andiamo al cinema».
Chi era l’Armani ragazzo?
«Un combattente, che non sapeva di esserlo ma ha sempre lottato in un periodo dove ogni giorno era un rischio. Un’esplosione improvvisa mi spedì all’ospedale per 40 giorni, dove mi fecero una terapia mostruosa immergendomi nell’alcol per togliermi la pelle bruciata. Investita da un rimorchio di un camion durante un sorpasso mal calcolato, morì il mio primo amore. Aveva 9 anni e io 12, ricordo ancora la sua carnagione ambrata e i grandi occhi esotici. Quasi tutti i ricordi di quegli anni sono permeati da un senso di emergenza, di fuga e di lotta per la sopravvivenza. Qualche volta ho ancora in mente il disagio e l’imbarazzo, la grande tristezza di quelle ultime giornate a Piacenza, con lampi improvvisi di felicità per le mille scoperte che un bambino può fare anche tra le rovine della guerra. Poi ci siamo trasferiti tutti a Milano dove mio padre ci aveva preceduti. E la vita è cambiata. Ho avuto coraggio, ma me ne accorgo soltanto adesso».
Cosa non rifarebbe?
«Inutile provare rimpianti. Piuttosto, riflettere sui comportamenti passati aiuta a cambiare il presente, a migliorarlo. Comunque, posso dire che rifarei tutto ciò che ho fatto».
Qual è stato il suo giorno più felice?
«Vivo nel presente e il momento presente è sempre il più felice».
Il momento più duro?
«Qualche anno fa ho affrontato uno dei momenti più duri e complicati della mia vita. L’ho superato anche per il desiderio fortissimo di ritornare ad Antigua, alla piccola spiaggia bianca che mi aveva incantato e che ero sicuro mi stesse aspettando. Tanto che lì poi ho acquistato una casa».
Con cosa brinda?
«Se bevessi ancora, con un rosso».
Come sceglie i suoi chef?
«Premetto che incarnano tutti il mio stile. Ognuno in modo diverso. Scelgo professionisti che dimostrino di avere una grande passione per il loro lavoro: senza protagonismi eccessivi, ma accomunati dal desiderio di raggiungere l’eccellenza».
Con quante persone trascorrerà le vacanze?
«Con gli amici di sempre, i familiari, qualche collaboratore. Arriviamo fino a 20 persone, ma i gruppi si alternano e c’è sempre una nuova energia».
Qual è la giornata tipo?
«Posso sembrare molto metodico, ma è un comportamento che mi permette di vivere a fondo le mie giornate e i miei impegni. In genere non vado a letto tardi e mi alzo presto per fare un po’ di attività fisica, che mi dà la carica. Con il cibo ho un rapporto equilibrato. Seguo una dieta bilanciata, e sento che il mio fisico trae beneficio da un’alimentazione leggera e sana. Non salto mai un pasto e mi ritaglio sempre almeno mezz’ora per sedermi e mangiare correttamente».
È vero che non parla mai di lavoro quando è a Pantelleria?
«Mi piacerebbe, non è possibile. Perché l’azienda non si ferma mai. Ma la mia piccola, meravigliosa Pantelleria è sicuramente il luogo dove riesco a staccare di più».
I piatti e i vini a casa?
«Piatti locali come la pasta al pesto pantesco, o insalate con capperi. O piatti piacentini come i tortelli, o il risotto alla milanese. Anche la pizza, visto che c’è un forno dedicato che amiamo usare la sera... I vini: Donnafugata, il Nozze d’oro di Tasca d’Almerita, il Primitivo... Champagne ogni tanto per l’aperitivo. Oppure Franciacorta».
Cos’è il lusso? E l’eleganza?
«L’eleganza è un pensiero e un atteggiamento, che mettono in scena la vita, senza strappi né esaltazioni, dove ogni dettaglio suggerisce padronanza e sicurezza. Il lusso può esprimere al massimo livello questa tensione emotiva, ma può anche trasformarsi nel suo contrario».
Perché ha scelto di cambiare l’Emporio Armani Caffè di Milano?
«Sentivo il bisogno di ripensare l’ambiente e la varietà delle offerte, di riprogettare completamente non soltanto lo spazio con giochi di prospettive e di volumi, ma anche l’atmosfera. Così oggi è diventato Emporio Armani Caffè e Ristorante, un luogo speciale, aperto e accogliente, che per design e cura del food è lo spirito stesso della contemporaneità».
Qual è il suo bagaglio in viaggio?
«Amo viaggiare con un bagaglio leggero ma ben organizzato, dove non mancano mai il mio profumo preferito, le magliette blu in cotone d’estate, in cashmere d’inverno, le sneakers bianche».
Quali sono i politici di oggi e di ieri più o meno eleganti?
«Se le premetto che non c’è eleganza nell’abbigliamento senza eleganza di pensiero, mi salva dal rispondere? Per il passato, non ho dubbi: Churchill, Pertini, Mitterrand. E il presidente Napolitano. Per il presente, trovo che il sindaco di Milano, Beppe Sala, abbia un’immagine molto discreta ed elegante. Ho poco da suggerirgli, il suo stile è quello che si addice a un personaggio politico del suo calibro».
Come vede l’impero Armani nel futuro?
«Forte e al passo con i tempi, sostenuto da un obiettivo sempre chiaro: accompagnare donne e uomini in una quotidianità nella quale etica ed estetica migliorano la vita».