Robinson, 4 agosto 2019
Intervista a Luciana Castellina
Una ragazza che tra pochi giorni (il 9 agosto) compirà 90 anni. Potremmo riassumere così il dato anagrafico di Luciana Castellina, deputata per varie legislature, parlamentare europea, comunista e dissidente, scrittrice e oggi con un futuro che si guadagna in giro per l’Italia e per l’Europa. È appena tornata da un campeggio a Isola Capo Rizzuto. Sei infaticabile, le dico. «Se non lo fossi sarebbe la fine. Ho passato recentemente due mesi quasi immobile, per la frattura del bacino, credevo che a pezzi stesse andando tutta me stessa. Ma eccomi ancora qui, sotto il segno di una passione che non si è mai spenta».
Ti senti un esempio?
«Di cosa?».
Di vitalità, anzitutto.
«Effettivamente, è raro che si arrivi alla mia età con questo slancio. Ma più che di vitalità parlerei di amore per la vita e per il senso che ancora do alle cose importanti. Non è che mi sbatto a destra e a manca per il puro piacere di muovermi».
Lo fai perché?
«Vivo in un Paese che mi piace sempre meno».
Non ti sento depressa.
«Dovrei esserlo?».
Guarda la sinistra, sembra sotto un treno.
«Si piange addosso. Ha perso la stima di sé e del suo passato. I peggiori sono i sessantottini, non fanno che lamentarsi».
Tu sei stata una parte importante del Sessantotto.
«Lascia stare cos’ero. E poi il Sessantotto fu un evento a suo modo epocale. Ma non si vive di rendita. Le nuove
generazioni se ne fottono di quello che siamo stati».
Lo dici su quali basi?
«Tutti gli anni vado nel campeggio, organizzato dall’Arci, all’Isola di Capo Rizzuto. Lì trascorre le vacanze un migliaio di giovani. Molti di loro sono nati tra il 2004 e il 2006. Non sono anime spente o smarrite. Sono ragazzi e ragazze che discutono, sotto i pini, in un caldo infernale».
Parlando di cosa?
«Di quello che gli sta accadendo. Pochi principi generali, e molta concretezza. Hanno scoperto che la politica non necessariamente è una cosa sporca. A volte sono confusi, ma non sono dogmatici. Gli piace discutere, uscendo dal proprio individualismo. Sono una minoranza, se la confronti con la situazione generale. Ma intanto battono un colpo».
Ti riconosci in loro?
«Anch’io sono stata giovane e confusa. Ma forse noi scommettevamo su un futuro migliore».
Sei di origini triestine.
«Sono nata a Roma. Mia madre era triestina ed ebrea. Il suo matrimonio con Gino Castellina non durò a lungo.
Finì davanti alla Sacra Rota. Mio nonno, triestino anche lui, fu amico di Oberdan. Mia madre si risposò e con il nuovo marito ci trasferimmo a Verona. Tornai a Roma e frequentai il Tasso».
Qui conoscesti uno dei figli del duce.
«La figlia Anna Maria, che mi invitava a volte a Villa Torlonia. Anna Maria era condannata dalla polio a portare il busto. Mi incuriosiva la sua intelligenza sferzante, il suo sentirsi a un tempo privilegiata e derelitta. Quando il fascismo cadde, ero ospite nella sua villa di Riccione. Delle guardie interruppero una nostra partita a tennis e le dissero che doveva in tutta fretta rientrare a Roma. La rividi per caso dopo la guerra.
Conservava la sua verve ma era come sperduta, in una città e in un mondo che non erano più i suoi».
Quando diventasti comunista?
«Dovevo scegliere “tra la via Emilia e il West”, tra i comunisti e il partito d’azione. Questi ultimi mi sembravano seri ma noiosi, gli altri concreti e perfino spigliati».
Tu scegliesti il Pci.
«Fu fondamentale per una ragazza che non aveva neppure 18 anni scoprire un mondo per lei sconosciuto».
I famosi ideali.
«Tu ci scherzi. Era gente seria, con alcuni limiti, ma capace di guardare dentro e soprattutto fuori dal partito. Chi non ha vissuto quell’esperienza non credo possa coglierne tutte le sfumature».
Oltre al partito trovasti l’amore.
«Non era preventivato, ma accadde. Una storia con Alfredo Reichlin cominciata sui banchi de L’Unità. Ci sposammo nel 1953 e ci separammo quattro o cinque anni dopo. Tutto quello che è venuto successivamente, storie anche importanti, sono accadute fuori dal vincolo matrimoniale».
Perché?
«Si può stare bene senza che tu debba sentirti condizionata da un’istituzione».
Tra le storie importanti c’è quella con Lucio Magri.
«Decisamente importante».
In un certo senso vi somigliavate.
«Trovi?».
Belli, brillanti, curiosi, schierati dalla parte giusta.
«Come vedi non è bastato».
Stai pensando al suo suicidio assistito?
«Con quella storia tragica c’ho fatto pace. Di lui si ricorda stancamente che era come un divo del cinema.
In realtà fu un intellettuale rigoroso e importante. Nel partito e fuori, quando ne uscimmo».
Deste vita al gruppo “Il Manifesto” e il Pci vi mise alla gogna.
«Ci massacrarono. Uno dei pochissimi che continuò a salutarci fu Emanuele Macaluso».
Giancarlo Pajetta si dimostrò il più intransigente.
«Intransigente? Quando mi vedeva cambiava strada.
Disse anche: non sono compagni che sbagliano, sono uomini e donne di mezza età inaciditi. Il riferimento era soprattutto a me e a Rossana Rossanda».
Di quel gruppo composto anche da Luigi Pintor, Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, siete rimaste tu e la Rossanda.
«Con Rossana non ci siamo lasciate niente alle spalle ed è come se loro fossero ancora con noi. Se credessi in un’altra vita saremmo pronti a ricominciare quella storia».
Che cosa vi ha tenuti insieme?
«La passione intellettuale ed esistenziale per le cose importanti. Fra tutte, l’idea di una società migliore».
Tutti auspicano una società migliore.
«In giro vedo solo una società regredita e imbarbarita».
Quali colpe attribuisci alla sinistra?
«La più grave è l’ossessione per il potere: contava solo il governo e poco o nulla la società con le sue dinamiche e i suoi problemi. La sinistra blatera di valori, ma ha fatto ben poco per dare ad essi rappresentanza sociale».
Vuoi dire che la sinistra non ha più rilevanza storica?
«Quando un milione di giovani, tanto per sparare una cifra, ha come controparte gli algoritmi e non le idee, allora sei diventato irrilevante».
Non ti preoccupa la destra che avanza?
«Eccome se mi preoccupa. Ma il problema non è la sinistra che arretra e la destra che avanza. Il problema è il progressivo svuotamento della democrazia. Che nasce molto prima dell’arrivo dei Salvini e dei Di Maio. Nasce quando si è deciso che la politica è uno strumento poco adatto a governare la complessità del mondo».
Chi è il soggetto di questo tuo ragionamento?
«Pensa alla “Trilateral” e al manifesto redatto negli anni Settanta da Europa, Giappone, Stati Uniti – ma oggi la questione si complica con la presenza di Cina, Russia e India – in cui si diceva: c’è troppa democrazia in giro per il mondo e il sistema non se la può permettere. È allora che nasce la parola “governance”. Tradotta vuol dire che l’economia è troppo complessa per affidarla alla politica. Ovviamente sto parlando di un’onda lunga».
Ed è giunta fino a noi?
«Beh, guardati intorno. I parlamenti non contano più nulla, i partiti men che meno, i politici recitano delle pantomime a uso e consumo dei siparietti televisivi.
Sbraitano, insultano, promettono, arringano. Sono scene penose e tutto questo nel più assoluto rispetto della democrazia formale».
Vuoi dire che sei per la democrazia diretta?
«Quella è un’altra favola e non c’entra niente essere pro o contro Rousseau, intendo il filosofo non la piattaforma che mi pare una mezza truffa. C’entra il fatto che una società la governi con i corpi intermedi, ascoltando quello che la società ha da dire».
Tu preferisci parlare di società e non di popolo.
«"Popolo” è un’entità astratta, universale certo, ma il cui uso si può prestare a mille ambiguità e strumentalizzazioni. “Società” ha una maggiore concretezza. È un laboratorio nel quale si può sperimentare il presente e lavorare per il futuro».
È un laboratorio senza più attrezzi.
«Va ricostruito. Anche perché sono cambiati i soggetti».
Pensi alla classe operaia?
«È stata una componente fondamentale, oggi sta assumendo nuove forme e vive nuove contraddizioni. A quali valori può e deve richiamarsi? Pensa all’ecologia.
Un operaio dell’Ilva la vive in modo diverso da come la vive Greta».
È la politica che deve trovare la sintesi?
«Purtroppo la politica, che un tempo avrebbe assolto a questo compito, si è privatizzata. Non pensa più – ma a dire il vero non lo faceva neppure tanto in passato – al bene comune, pensa al bene sconnesso. Ossia se una determinata decisione risulterà o meno utile nell’immediato».
In fondo sei rimasta una sessantottina.
«Ti sbagli, se non altro anagraficamente vengo prima».
Ti manca il Pci?
«Mi manca la capacità di elaborazione, non mi mancano le sue ortodossie anche se, ti confesso, le preferisco alle scemenze che sento dire in giro da molti politici».
Sei stata nel “cerchio magico” di Togliatti.
«Ma che dici, l’ho frequentato, sono stata amica della sua compagna Nilde Iotti, ci siamo visti qualche volta a cena e ne ho apprezzato la grande qualità intellettuale».
Che usava spesso come una clava.
«Erano tempi duri ma ideologicamente chiari. Però Togliatti si incuriosiva per tutto. Chiese a Rossanda di presentargli Sartre che lei, in quanto responsabile culturale del Pci, conosceva benissimo. Non so cosa avrei dato per essere a cena tra lui e Simone de Beauvoir. Cena che organizzò Rossana in un ristorante romano. Un’altra volta si incuriosì di Eugenio Scalfari e chiese a me e ad Alfredo Reichlin di organizzare noi una cena».
Come andò?
«Eugenio aveva preso da poco la direzione de
L’Espresso e Togliatti si mostrò attento al cambio di linea. Ma onestamente non ricordo i contenuti di quella serata, che fu comunque piacevole».
A 89 anni hai fatto una campagna elettorale per Sinistra di Tsipras. Chi te lo ha fatto fare?
«Mi sono sempre spesa per quello che in cui ho creduto».
Come valuti il tuo bilancio politico?
«Non avrei potuto fare altro di importante nella vita e f
Mi manca la capacità di elaborazione del partito, non mi mancano le sue ortodossie anche se, confesso, le preferisco alle scemenze che sento dire in giro da molti politici
g nel dirlo metto in conto le numerose sconfitte. Che sono in definitiva meno avvilenti perché non ho mai pensato alla politica come a un bene individuale».
La politica è la grande imputata di questi anni.
«Vuoi che non lo sappia? Chi se ne è fatto interprete ha quasi solo pensato ai fatti propri. C’è una frase che don Milani scrive in una lettera. Dice così: ho scoperto che il mio problema è uguale a quello degli altri. Risolverlo tutti insieme è politico, risolverlo da soli è da avari.
Purtroppo viviamo in una società sempre più avara e sordida, la quale non sa che farsene degli altri, salvo usarli come strumento e fonte di paura».
Che traguardo sono i 90 anni?
«Bello, brutto, strano. A seconda dei momenti. L’unica cosa che mi secca veramente è che non riuscirò a vedere come finirà. È una fase troppo lunga e complessa quella che stiamo vivendo. A volte dico: qui stanno distruggendo tutto e allora penso a quei benedettini che furono la grande risorsa culturale dei secoli bui. Si presero cura di tutto quello che di fondamentale il passato aveva prodotto. Mi sento un po’ così. Con la sensazione che occorra ricostruire il lessico dei valori, dei sentimenti, dell’agire politico. Sarebbe bello se un giorno fossimo riscoperti per questo oscuro lavoro».