Robinson, 4 agosto 2019
Il giro del mondo di Magellano
In quest’anno nel quale abbiamo ricordato il cinquantesimo anniversario del viaggio dalla Terra alla Luna, quanto può valere il cinquecentesimo della spedizione con cui Ferdinando Magellano fece compiere la prima circumnavigazione del globo, dimostrando in modo inconfutabile ( anche agli ottusi di oggi) che il pianeta è una sfera? I secoli sono macine che tutto rendono polvere, ma separano quella d’oro e, in scala, fanno rifulgere il passato dieci volte di più, per compensare le superiori possibilità del presente. Parimenti grandiosi furono l’ardimento e i sacrifici. Simili le pratiche inutilità per i posteri: chi più vola sulla luna o si addentra nel pericoloso Stretto battezzato come l’esploratore portoghese? Ambo i percorsi furono seminati di morti e dubbi, in una analoga gara tra superpotenze (Spagna e Portogallo, Stati Uniti e Unione Sovietica). La fondamentale differenza è che l’allunaggio fu un’impresa collettiva nel concepimento e infine realizzata da un uomo solo, mentre la circumnavigazione fu compiuta da una sempre più sparuta flotta, ma pensata, voluta e sospinta oltre ogni tempesta e ogni logica dal solo Magellano. Scrive Stefan Zweig nella sua biografia: «Ha dimostrato per l’eternità che un’idea, se ispirata dal genio, se sorretta da una tenace passione, è più forte di tutti gli elementi naturali, che l’individuo singolo con la sua piccola vita fugace è pur sempre in grado di trasformare in realtà e in verità imperitura quello che a centinaia di generazioni è apparso puro sogno illusorio». Che dovesse morire mentre lo faceva, constatando il proprio trionfo, ma cadendo prima del traguardo, è soltanto l’inevitabile tributo all’epica, che nel martirio si completa e nella sua banalità rende omaggio al caso, di cui è compagna.Magellano vince e muore prima di ritirare il premio: i suoi eredi non avranno nulla della sua designata, immensa fortuna ( anche perché moriranno mentre lui è per mare), niente toccherà ai poveri a cui aveva pensato nel suo testamento in un giorno lontano e disperato, il suo corpo non avrà sepoltura né lacrime. Ancora Zweig solennemente conclude con quello che può considerarsi un epitaffio ritardato di qualche secolo: «Solo l’impresa da lui attuata sopravvivrà al navigatore, solo l’umanità intera gli renderà grazie».È una straordinaria quanto apparente contraddizione in termini quel «solo l’umanità». E una grande, amara verità. Gli esseri più elevati si congedano nell’incomprensione dei meno dotati, che sono moltitudini, senza l’abbraccio dei cari che hanno trascurato per cercare qualcosa che non si trova nelle camere di casa. Tradiscono la bandiera, perché la loro vera patria era la loro missione e nulla potevano anteporle.Cinquecento anni dopo che le sue cinque navi lasciarono il fiume al porto di Sanlúcar de Barrameda, dove il Guadalquivir sbocca nel mare aperto, dato che non si è potuto seppellire Magellano, lo si potrà almeno lodare? Quella specie di Ulisse incarnato, che voleva girare il mondo intero per via di mare al solo scopo di tornare dove era partito, è stato, se non altro, un archetipo, un simbolo, una figura capace di perpetuarsi, tramandando il proprio Dna in quella sterminata famiglia che è il genere umano?Vanno allora cercati i tratti distintivi del personaggio, la sua profonda natura che nel tempo si trasforma e adegua, assumendo altri nomi e connotati. Almeno tre sono quelle caratteristiche, altrettanti gli epigoni nella modernità.Anzitutto, Magellano è stato un rivoluzionario. Lo è stato nel senso più letterale del termine: ha voluto rivolgere, cambiare le cose, modificare la concezione del mondo e trarne conseguenze, non soltanto per sé, ma per tutti. Pur di riuscirci è ricorso a ogni mezzo, è andato dove erano disposti ad armarlo, ha giustificato la violenza, difeso la causa quando sembrava perduta. Direbbe Houellebecq: ha” esteso il dominio della lotta”, trasferendolo oltre i confini conosciuti, mai atterrito dall’ignoto. Come Ernesto Che Guevara rinunciò alla professione di medico in Argentina per combattere la causa di Cuba, lui rifiutò la pensione in Portogallo e si reinventò la vita e l’avventura in Spagna. Poi entrambi cercarono di esportare altrove la loro energia che modificava il mondo intorno, entrambi per un anno non andarono da nessuna parte, conobbero l’inerzia dell’Africa, le lusinghe del Sudamerica e il tradimento finale, l’incompiuto destino della loro persona, ma non della loro impresa. Da rivoluzionario, Magellano ammetteva la sconfitta, ma non la resa. Si lasciò i ponti alle spalle, andando avanti finché proseguire divenne più facile che tornare indietro, tenne per sé solo il dubbio e perfino, in qualche caso, la certezza dell’errore, confidando che il raggiungimento del fine e il miglioramento delle cose avrebbe sanato ogni peccato.Lo confortava la sua seconda natura. Benché uomo d’azione, esploratore, Magellano aveva l’animo dello scienziato. Calcolava, soppesava, valutava prima di decidere e fare. Per questo appariva freddo, taciturno: seguiva una tattica, aveva una strategia. Come ogni scienziato considerava gloria suprema non il denaro o i titoli (che già possedeva in misura sufficiente a una vita agiata), ma il riconoscimento della propria tesi. Come Einstein concepì le sue più ardite teorie nell’oscuro Ufficio Brevetti, così Magellano ideò il viaggio dei viaggi nell’Archivio Reale. Sulle carte vide gli oceani, le mappe gli si schiusero in una terza dimensione, immaginò il mondo come nessuno l’aveva mai conosciuto. Il passo successivo era trasformare la teoria in pratica. Ci voleva, a quel punto, della follia.E questa è la terza natura di Magellano, quella di un folle lucido. Non agì per conto di George Bush, per così dire, non partì per trovare uno sbocco commerciale che prescindesse dalle dogane dell’Islam; né agì per conto del Papa imperatore: eresse croci, ma senza bagnare conversioni nel sangue. Vide, questo sì, il bagliore di una fortuna a venire, per sé e per tutti. Fu scorbutico con chi, i più, non sognava con lui, giacché «l’eroe – scrive Zweig – va contro la ragione». Come Steve Jobs, fu affamato di futuro, aprì una strada che la morte prematura gli impedì di percorrere fino in fondo, lasciò una memoria in chiaroscuro, in cui” visionario” resta un termine ambivalente. Poiché l’umano spesso giace sotto una catasta di interpretazioni postume e distorte, ci piace ricordarlo con un’immagine cronistica, tramandata dal suo primo biografo, quell’Antonio Pigafetta che viaggiò con lui e così lo descrive quando capisce di aver trovato la via giusta: «Il capitano generale lacrimò per allegrezza».