Robinson, 4 agosto 2019
Rileggere Il grande Gatsby con un’altra prospettiva
Come tanti, avevo sempre letto Il grande Gatsby come un capitolo di quella tetralogia dell’insuccesso costituita dai grandi romanzi di Fitzgerald, di cui le meravigliose pagine di The Crack Up costituiscono l’epigrafe perfetta. Hemingway aveva un bel da fare a spiegare a Fitzgerald che i ricchi sono diversi da noi solo perché hanno più soldi. Fitzgerald era sinceramente convinto che non fosse così: i soldi, il successo, il riconoscimento, sono la prova mondana del fatto che lassù qualcuno ci ama. E ovviamente la malora, la catastrofe, la dannazione, e soprattutto le bevute nelle ore sbagliate sono la dimostrazione del fatto che noi non siamo tra i predestinati.
Ci sono moltissimi motivi per leggere o rileggere Il grande Gatsby, ma questa traduzione ne aggiunge uno in più, grazie alla nota di lettura di Carola Barbero, che capovolge la prospettiva con cui io, come verosimilmente molti altri maschi, lo abbiamo letto. Il punto centrale non è il successo, e dunque la benedizione divina, ma l’amore. L’amore di Gatsby per Daisy che è anche più sciocca e futile di Emma Bovary, ma che si trova ad avere come spasimante non quel fesso di Charles, ma un titano. Uno di cui si dice che abbia studiato a Oxford e a Yale, che sia stato un eroe in guerra, che abbia ucciso un uomo, ma rispetto cui tutti coloro che partecipano al suo mondo e alle sue feste condividono la sensazione che non sia come loro.
E come loro in effetti non è, ma non tanto per la mancanza di soldi, infatti ne ha tantissimi, anche se tutti ne ignorano la provenienza. Gatsby non è come loro perché è meglio di loro, perché, in particolare, sa amare di un amore senza riserve quella stupida di Daisy, cui aveva promesso eterno amore quando era povero, e che ora lo riama un poco, perché è ricco e possiede dozzine di camicie, ma non se ne fa un cruccio perché intanto ha sposato un altro, Tom, violento, donnaiolo e razzista. Il vero Graal, qui, non è il riconoscimento da parte di Dio, ma quella benedizione più oscura e fragile che è l’amore. Nella sua totale inutile dedizione a Daisy, Gatsby ci ricorda la sottomissione di Abramo, disposto a uccidere suo figlio per eseguire la volontà di Dio.
È evidente che anche nella versione di Daisy permane il punto di vista maschile, perché in definitiva il Graal è anche la perdizione, qualcosa che spezza le ali. È l’intuizione che balena nella mente dell’eroe di Tenera è la notte, quando capisce che baciando Zelda dava addio ai suoi sogni di grandezza, di eroismo scientifico, di successo mondano. Ma il punto è proprio questo. Gli eroi di Fitzgerald, proprio come quelli di Proust, hanno una ambizione sociale e artistica sconfinata. Al tempo stesso, però, c’è in loro una frattura, quella crepa che predice che il piatto sbeccato cadrà in mille pezzi, proprio come, in Poe, la casa Usher crollerà.
La forza di opere come quelle di Fitzgerald, e più generale la forza della letteratura americana del suo tempo, sta nel resuscitare, al culmine della modernità, l’arcano e l’arcaico ( ciò che invece Joyce, in quegli stessi anni, tentava per via libresca, esoterica e saputella). La conclusione precipitosa, insieme racconto omerico e fatto di cronaca, ne è la prova. Nick, l’aedo, Gatsby, Patroclo, Tom, Menelao, Daisy, Elena di Troia, e Jordan, Tiresia, cercano di sfuggire al caldo andando a ubriacarsi a New York, ma in realtà è la resa dei conti. Gatsby dice a Tom che Daisy ha sempre e soltanto amato lui, Gatsby. Ma Daisy, ovviamente, non conferma.
Fa anche di peggio, come sappiamo. Prende l’auto di Gatsby, guida all’impazzata verso Long Island, investe e ammazza la moglie di un benzinaio, che era anche l’amante di Tom. E il benzinaio, convinto che l’omicida fosse Gatsby, va a fare giustizia. Personalmente non riesco a pensare questo finale senza dargli le immagini del film indimenticabile del 1974, con Robert Redford e Mia Farrow, e non di quello, dimenticato, del 2013, con Leonardo di Caprio e Carey Mulligan. Il benzinaio, Nemesi in tuta blu e agente del Quarto Stato, scarica il suo revolver sulle spalle di Gatsby, con una morte sacrificale che ricorda un altro grande film della metà degli anni Settanta, quella di Kurtz in Apocalypse now.
Ci sono molte morali possibili, come per ogni mito. Dal «chi dice donna dice danno» (magari con la variante specifica «donna al volante pericolo costante») sino al detto di Anassimandro: «Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo». Personalmente sono favorevole a questa seconda interpretazione, e alla versione, ben più chiara ed essenziale, che ne dà Carola Barbero: non si riesce a cambiare il passato, anche se si è un titano come Gatsby.