Robinson, 4 agosto 2019
Daniel Pennac e Stefano Massini parlano dei libri che aiutano a vivere
«È sempre, solo, una questione di paura». Questa frase, tratta da un’intervista di Daniel Pennac, costituiva per me il suo biglietto da visita. E molto di più. Dal momento che non conoscevo ancora di persona Daniel, mi accadeva di costruire l’immagine di lui non solo su ciò che intravedevo nei suoi libri ma principalmente su quel piccolo estratto, estrapolato da un intenso racconto in cui egli ricordava la sua infanzia paurosa, assillata dal terrore di «non saper rispondere alle domande degli adulti». C’è qualcosa di misterioso nel meccanismo dell’umano sentire: a distanza da un nostro simile di cui poco o niente sappiamo, percepiamo di lui – da frammenti, da vaghe orme – qualcosa di razionalmente inaffidabile eppure di rado mendace. Così è stato per me con Pennac: quando alcuni mesi fa lo vidi inaspettatamente comparire fra il pubblico della presentazione di un mio libro a Marsiglia, fu come se l’intuizione ricevesse un sigillo. Egli era senza dubbio il titolare – profondo e necessario – di quel «è sempre solo una questione di paura». Non vi era niente di causale in quel mio racchiuderlo in una frase: avevo percepito che essa lo rappresentava a pieno, cogliendo la zona d’ombra che ne illumina l’urgenza. Ci siamo conosciuti così, nel segno di una comune sensibilità per la scrittura come anticorpo della paura, la paura di non controllare le risposte, di non tenere il passo al perenne interrogatorio della società là fuori. La paura di sentirci bambini circondati da adulti sferzanti, risolti, collaudati e insindacabili. Più ci penso e più credo che risieda in questo nostro comune tratto il bisogno di un confronto come quello che segue, tutto incentrato sulla vocazione salvifica dei libri.STEFANO MASSINI: Non so, caro Daniel, se qualche purista storcerà il naso davanti a due scrittori che provino a guardare la letteratura con il parametro esclusivo dell’utilità. Sì: l’utilità. Non la coerenza poetica, non la coesione formale. Ipotizziamo di trovarci, io e te, sull’oceano dei libri: troviamo un messaggio dentro una bottiglia. C’è scritto: «con quali libri possiamo tentare di capire qualcosa di più del tempo presente?...». Ecco, vorrei che rispondessimo a questo messaggio di qualche lettore naufrago. E per farlo, quale luogo migliore che un supplemento dedicato a Robinson?DANIEL PENNAC: Già, i messaggi nella bottiglia. Lanciati nel passato, e aperti oggi. È dal più remoto ieri che i libri ci mettono in guardia contro le conseguenze delle nostre azioni. Per farti un esempio recente: il disastro ecologico – di cui solo ora l’Europa comincia a percepire le conseguenze concrete – lo raccontavano decenni fa Calvino, Ivan Illich, Serge Latouche e tanti altri.SM: Il messaggio nella bottiglia non è stato aperto?DP: Oppure aperto e non compreso. Perché non è mai semplice. Mi viene da pensare alla domanda che ci pongono sempre i lettori: «in che rapporto sta il libro con la confusione del nostro tempo? E soprattutto: come cerca di cambiarne gli squilibri?...». Ti confesso che ogni volta che me la fanno, mi spaventa sempre un po’. Innanzitutto perché non credo esista un tempo più complesso di un altro: nessuna epoca è semplice per chi la vive, per la fondamentale ragione che esistere significa iniziare fin dall’inizio l’esperienza della complessità, sia individualmente che come gruppo, famiglia o collettività.SM: Quindi la confusione per te è una condizione cronica dell’essere umano.DP: Credo che la domanda dei nostri lettori sia l’espressione di una loro profonda preoccupazione, ontologica, prospettica, che ha a che fare con ben altro: la ricerca di una definizione rassicurante del reale. Il punto, però, è: che cos’è davvero la realtà? Tu te lo sei mai chiesto, Stefano?SM: Azzarderei che la realtà è un compromesso, molto illusorio ( poco reale, paradossalmente) fra quello che noi sentiamo e quello che ci accade intorno. Il fatto è che noi non conosciamo mai la verità, ma solo la nostra percezione. E soprattutto in fasi storiche di spiccato individualismo, è davvero difficile riconoscere la tirannia del punto di vista: ci piace convincerci di avere una finestra oggettiva sulle cose. Ma tutto è un punto di vista, tutto è filtrato dal nostro io. Noi non leggiamo la realtà, bensì sempre «la realtà per noi, con noi, e dentro noi».DP: A questo proposito, voglio raccontarti una cosa. L’unica risposta che io abbia mai incontrato in questo ambito è quello che urlò Lacan (sottolineo: urlò) durante un seminario pomeridiano, davanti ad un pubblico molto intellettualmente schierato ( Barthes, Sartre, Lévi- Strauss, Pontalis, Starobinski etc...). Cominciò dicendo «Volete sul serio che vi dica cos’è la realtà?...» e a quel punto, gridando: «LA REALTÀ È DOVE S’INCEPPA!». L’ho sentito alla radio, ero in macchina. Ho riso così tanto che ho accostato in un parcheggio: mai sentita una sintesi più completa e convincente di “reale”. Ecco perché non credo ai libri che affrontano di petto la cronaca: la realtà è ciò che ti scivola dalle mani, non ti torna, ti spiazza. La realtà è dove s’inceppa. Grande Lacan.SM: Però ci sono casi in cui i libri hanno inciso profondamente sulla realtà. Pensa a quello che avvenne con la causa antischiavista e il romanzo di Harriet Beecher Stowe: è cosa nota che, dopo la guerra di Secessione, quando Abramo Lincoln la incontrò, le disse «Lei sarebbe la piccola scrittrice che ha scatenato questa enorme guerra?...». Ed è fuor di dubbio che La capanna dello zio Tom, uno dei primi veri bestseller, avesse contribuito a far esplodere la questione.DP: Si tratta però di casi circoscritti. Molto più spesso la letteratura esercita la sua influenza a posteriori. E ti dirò di più: lo fa in modo più o meno imprevisto e casuale: il messaggio nella bottiglia. Diciamo che in questi casi la letteratura opera due forme di intervento benefico: prima di orientare gli animi dei posteri, esercita sì un ruolo miracoloso nel presente, ma nel senso che salva dalla follia esseri umani bloccati nelle prigioni di una disumanità radicale (penso a Gramsci, a Primo Levi o Solženicyn, tanto per citarne tre).SM: Stai dicendo che gli autori di cui ti fidi sono prevalentemente figure in crisi, senza risposte. Mi fa riflettere, perché oggi cerchiamo di continuo dei personal trainer, dei motivatori, dei coach. Chiediamo loro delle risposte. Mentre tu adesso ribalti del tutto la prospettiva, e mi proponi di mettere nella bottiglia titoli di libri scritti da chi nella vita ha perso tutto, si trova al confino, agli arresti, a rischio di vita. Sto dicendo che Gramsci, Levi e Solženicyn per la loro epoca erano dei perdenti. Gente da cui non aspettarsi certo la rotta del successo, ma solo diari di tentativi.DP: I libri sono tentativi. Tentativi di portare un po’ di luce in una stanza buia. Tentativi di rimettere un minimo d’ordine nel casino immane in cui tutto va per la sua strada. Ma ripeto: parliamo di tentativi.SM: Mi piace l’idea di affrontare proprio con te questa sfida, e c’è una ragione – che conosci bene – legata al nostro incontro di fine maggio a Marsiglia. Lì scoprimmo di essere in qualche modo legati dal comune innamoramento per un romanzo ungherese, La porta di Magda Szabò. Lo ritengo un testo esemplare, proprio perché l’autrice sembra sopraffatta dalla realtà, non riesce a padroneggiarla.
DP: Sono d’accordo con te. Amo quel libro proprio perché il narratore – che poi è una penna di alto livello, consapevole dei suoi mezzi di analisi e della sua capacità di descrivere – esce a pezzi, disfatta, annientata dall’impresa di delineare un soggetto apparentemente semplicissimo come la sua vecchia domestica. Per quanto si sforzi, non riesce a comprenderla. Ecco, in letteratura mi è sempre piaciuta la descrizione di questi sforzi titanici ma umiliati. Il notaio nelBartlebydi Melville, ad esempio, si trova di fronte all’enigmatico rifiuto del giovane: «Preferirei non farlo». E la verità è che in fondo la domestica e lo scrivano – che in teoria sono pilastri dei rispettivi libri – mi interessano meno del notaio di Melville o del narratore della Szabò, i cui sforzi impotenti mi affascinano un sacco.SM: Direi allora che – dopo Gramsci, Levi e Solženicyn – abbiamo altri due titoli da chiudere nella bottiglia:La portaeBartleby lo scrivano.Per quanto non siano stati scritti oggi, li definirei letture essenziali perché antitetiche rispetto all’ossessione odierna per perimetrare la vita altrui, etichettandola da un profilo social o dal tono di un tweet. Hai ragione tu: sia nel racconto di Melville che nel romanzo della Szabò assistiamo a un’indagine inutile, vana, catastrofica, improntata al principio per cui «delle motivazioni di chi ti sta davanti tu in realtà non sai niente».DP: Sono capolavori della frustrazione. Aggiungerei che il campione di questo tipo di scrittura, negli ultimi decenni, è senza dubbio Philip Roth nella sua trilogia americana. In ciascuno di questi romanzi egli descrive un blocco di certezze, un monolite che coincide con il suo personaggio centrale. Il punto è che questo sistema granitico inizia a mostrare una crepa da un minuscolo dettaglio ( la frase di un insegnante inLa macchia umana)o da un evento ( l’attentato dinamitardo inPastorale americana)e finisce per disfarsi del tutto. Lo splendore di questi romanzi sta nello sforzo del personaggio centrale di dare un senso a ciò che gli sfugge, a ciò che non può afferrare, perché «la realtà è dove s’inceppa».SM: Dunque prepariamo un’altra bottiglia con Philip Roth. Nel frattempo sto pensando a tutti i mille guai di cui sono costellate le pagine dei nostri quotidiani, e mi chiedo se esista per ciascuno un anticorpo letterario.DP: Possiamo tentare, se vuoi, un’altra strada. Una provocazione. Proviamo a pensare come sarebbe un mondo in cui i grandi capolavori del passato avessero davvero raggiunto l’obiettivo implicito che si poneva il loro autore: grazie all’Iliade avremmo un pianeta senza ombra di guerra; grazie a La metamorfosi di Kafka saremmo tutti liberi da complessi e paure. Vado avanti: Dostoevskij con I demoni ci avrebbe liberati dal terrorismo, Vasilij Grossman con Vita e destino avrebbe spazzato via per sempre i regimi.SM: Non ci sarebbero più colonialismi dopo Passaggio in India di Forster, né pregiudizi razziali dopo Il buio oltre la siepe di Harper Lee.DP: Non avremmo più fake news per merito di Shakespeare col suo Otello, non ci sarebbe spazio per la dittatura della maggioranza grazie a Elias Canetti, né esisterebbe un solo omofobo dopo aver letto La ricerca del tempo perduto. Stessa cosa per gli antisemiti dopo aver letto Levi. Aggiungo: zero consumismo perLeonia di Calvino, zero capri espiatori per René Girard. Insomma: se davvero la letteratura avesse trionfato, tutto scorrerebbe liscio. Tutt’al più mangeremmo tutti interiora di animali a colazione, emuli del signor Bloom di Joyce… SM: Abbiamo riempito una decina di bottiglie…DP: È chiaro che il mio è uno scherzo, ma non c’è dubbio che da sempre la letteratura ci insegna su noi stessi e ci mette in guardia contro noi stessi, individualmente e collettivamente. A noi ascoltarla o meno. Che lo facciamo o no, la cultura ci garantisce l’esistenza di uno sguardo lucido. A chi vuole, i libri danno una chance di alzarsi sopra il gran bordello delle cose e tentare una lettura di ciò che altrimenti sarebbe illeggibile.SM: Vuoi farmi un esempio?DP: Lo chiedo io a te, interpellandoti su tre parole- chiave… Ma non aspettarti grandi temi d’attualità. Credo che per i nostri lettori dobbiamo partire da qualcosa di piccolo, come il nostro rapporto con il DUBBIO.SM: In questo caso ti proporrei di riscoprire Jakob von Gunten di Robert Walser. La bellezza del libro sta nel fatto che niente è chiaro: all’Istituto Benjamenta – una scuola per diplomare maggiordomi – non si capisce quale sia il metodo, se vi sia un criterio formativo o selettivo, eppure tutto assume un suo sinistro senso, prendendo forma dallo sbando.DP: E se ti dicessi invece il tema dell’INNOCENZA?SM: Suggerirei subito quel capolavoro che è La panne di Dürrenmatt: un agente di commercio ha un guasto all’automobile, si ferma per una notte in campagna ospite di un vecchio magistrato. E per un gioco spietato, si trova imputato in un processo allestito nel tinello per tutta la notte. Crede di non avere macchie, in realtà si scopre orribile. Metterei questo titolo nella bottiglia perché in fondo tutto il sistema dei social ( hater, fake news, ecc.) si regge su una presunta innocenza di chi attacca gli altri, senza mai guardarsi allo specchio. Senza autocritica.DP: Terza parola che ti propongo è GENTILEZZA, oggi del tutto svalutata.SM: Rispondo con La famiglia Karnowski di Israel J. Singer perché rappresenta un sismografo del lento volgere dell’Occidente verso il ringhio dei regimi totalitari. Anche in quel caso, la perdita di gentilezza – come la chiami tu – fu il primo sintomo della patologia. E ti confido che questo nostro rapido volgere dalla cordialità all’aggressione, mi ricorda davvero molto quello scenario.DP: Allora ho pronte tre bottiglie con i libri di Walser, Dürrenmatt e Singer. Anch’io però ti faccio una piccola confidenza, che ha a che fare con un’utopia. Sogno un’umanità in cui tutti abbiano letto, assimilato e ammesso per inconfutabile l’unica soluzione proposta da Montesquieu nella sua Favola dei Troglodytes:SOLIDARIETÀ. Credo che l’umanità morirà proprio per mancanza di solidarietà. Ti sembra un’inaccettabile semplificazione? Può darsi, ma quello di Montesquieu è un testo davvero per tutti, un librettino, impossibile non capirlo. E io sono un ragazzo semplice, guarito dai libri.SM: Guarito da quale malattia?DP: Dalla disperazione per un futuro che non vedevo. E forse tuttora stento a vederlo: a volte credo che il grande sogno dell’Occidente finirà in un incubo. Ma sono stati i libri a salvarmi dalla tristezza cronica, perché la loro grandezza sta nell’assolvere a una doppia funzione. Da un lato i libri ti parlano del tuo tempo, ma dall’altro lato è indubbio che leggendo perdiamo la nostra età, il nostro vivere qui e ora: chi è immerso nella lettura – come il sognatore o l’amante – non è più un consumatore o un cittadino, vive in un universo più grande, quello della letteratura, per definizione atemporale. Ecco la ragione per cui, potendo scegliere fra aprire il gas e aprire un libro, scelgo ancora di aprire il libro. Ti pare poco?