La Stampa, 3 agosto 2019
Francesco Mazzei
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Francesco Mazzei è nato a Cerchiara di Calabria.
Se i londinesi sanno che cos’è la n’duja è merito suo, a 45 anni è il cuoco italiano più famoso della capitale. Ha insegnato a vip e businessman i sapori del Meridione. Pochi giorni fa il presidente Mattarella gli ha conferito l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana. La sua Sartoria, in Saville Row, la via dei sarti dove anche James Bond andava a farsi fare i vestiti, è uno dei ristoranti più esclusivi, mentre Radici a Islington e Fiume a Battersee sono un ritrovo meno esigente per una solida cucina italiana.
Come si diventa Francesco Mazzei?
«Avevo 23 anni, lavoravo al Grand Hotel di Roma, non sapevo una parola di inglese. Decisi di prendere una lunga aspettativa e mi feci assumere a Londra al Dorchester Hotel, di proprietà del sultano del Brunei. All’epoca era il più celebre albergo del mondo. Sono rimasto per quattro anni, sotto la guida degli chef Willi Elsener e Henry Brosi. Mi piaceva moltissimo, una professionalità inimmaginabile. Poi ho iniziato a girare il mondo. In Thailandia ho aperto un ristorante al Royal Bangkok Sport Club per conto della famiglia reale, il Fallabellla. Di lì ho potuto visitare il Vietnam, il Laos, la Cambogia, la Cina, Bali dove ho approfondito la cucina orientale. Tanto che ho avuto un contratto con la catena di lusso Hakkasan, dove si cucina cinese, e ho potuto imparare da Alan Yau, il manager che ha inventato i ristoranti Wagamama».
Poi di nuovo il richiamo dell’Inghilterra...
«Sono ritornato a Londra ad aprire un ristorante in Jermyn Street, il Franco’s, per la famiglia d’Ambros. I media britannici hanno cominciato a parlare di Francesco Mazzei, sono uscite le prime recensioni sull’Evening Standard e sul Times. Era un ragazzo tutto scuro tutto riccio che parlava di ‘nduja, di liquirizia, di bergamotto. Da allora è partita la curiosità e ho potuto abbandonare la cucina stellata per fare quella “della mamma con le mani dello chef”, basata sulle ricette italiane del Sud. Sono passato poi al Saint Alban, con Chris Corbin e Jeremy King, quelli che hanno inventato The Ivy, in West Street, ritrovo di vip e artisti. Il contratto era molto buono, facevo cucina europea moderna, Spagna, Portogallo, Italia. Bloomberg scrisse che eravamo il miglior ristorante britannico. Un businessman mi contattò, voleva aprire un ristorante nella city: nacque così l’Anima. Nel contratto c’era scritto che potevo cucinare quello che volevo. Con Claudio Silvestrin, un architetto che aveva lavorato con Armani, abbiamo inventato un ristorante che è subito diventato il tempio dei sapori del Sud Italia in Inghilterra. Una cucina quasi rustica in un ambiente super raffinato: fece il botto».
Com’è arrivato in televisione?
«È capitato per caso, un giorno c’era una signora a mangiare all’Anima, non sapevo chi fosse. Era una giornalista di Bbc1, mi ha detto: “Hai la faccia da televisione”. Il giorno dopo è arrivata una email che mi invitava al suo programma».
Spesso la cucina stellata sembra parlare più al cervello che allo stomaco, non crede?
«Il cibo iper concettuale sta diventando una cosa noiosa. Vedo molti cuochi tornare con i piedi per terra in cerca della realtà. Ci sono un sacco di buoni motivi per farlo: l’Italia in questo momento ha bisogno più che mai di certezze, anche a tavola. Mi raccontano amici in vacanza nel nostro paese che in alcuni ristoranti blasonati servono il fois gras, foams, schiume e schiumette e non i grandi piatti della tradizione. Le cose stanno cambiando, c’è un ritorno alla cucina vera, ai nostri ingredienti straordinari dove siamo i primi al mondo».
Cucina della mamma, mani dello chef: che significa?
«Quando dico mamma, dico zia, nonna, la cucina paesana insomma. Per me è la rielaborazione dei piatti della mia infanzia, quelli che ti rimangono nella memoria. Vengo da una famiglia religiosa, il baccalà lo mangiavamo a Natale, le puntarelle alla vigilia, a capodanno il pollo ripieno con i bucatini. Aggiungo le tecniche della cucina moderna e mi attengo strettamente alla stagionalità, mai ingredienti fuori periodo. Per due motivi: i sapori sono più buoni e costa meno».
Incontra molte persone celebri nel corso del suo lavoro?
«L’ultimo per cui ho cucinato è stato Roger Waters dei Pink Floyd che è diventato un cliente della Sartoria. Mi ha chiesto: quanti soldi vuoi? Gli ho detto: niente ma alla fine della serata ci beviamo un bicchiere di vino insieme e tu suoni un pezzo con la chitarra. Ho ancora la pelle d’oca, è stato straordinario. Mi ha invitato al suo tour americano ma purtroppo non ho avuto tempo di andarci. Un altro aficionado è Stanley Tucci, poi molti businessman e diplomatici. Ho anche una consulenza in Svizzera per Evgeny Lebedev, il boss dell’Evening Standard e The Independent».
Che differenza c’è tra il cliente italiano e quello inglese?
«L’italiano è più esigente, mangia di più. L’inglese beve di più e, in genere, spende di più. Londra è cambiata moltissimo, adesso trovi quello che vuoi di qualsiasi cucina e a livelli altissimi. Ora gli inglesi conoscono bene i nostri piatti, non è come 25 anni fa che faticavi a comprare l’olio d’oliva».
Quali cuochi italiani metterebbe sul podio delle olimpiadi della cucina?
«Lasciando da parte le star della tv e anche il mio amico Massimo Bottura, metterei sul podio Norbert Niederkofler dell’Hotel Rosa Alpina a San Cassiano in Badia, sulle Dolomiti. Ha preso in mano praticamente una pizzeria e l’ha portata alle stelle Michelin. L’altro è Giancarlo Morelli, ha un ristorante a Milano in via Fioravanti e uno a Seregno, il Pomiroeu. Unisce una profonda cultura a una grande umiltà, un talento straordinario. Poi premierei Giorgio Locatelli, che è a cavallo tra Londra e l’Italia. Quando sono arrivato a Londra nel ’95 lui era già una celebrità, il padre nobile della cucina italiana londinese».
Che cosa consiglierebbe a un giovane che vuole fare il cuoco?
«Di guardare poco i programmi televisivi e cercare di stare il più possibile ai fornelli. Se vuoi fare questo lavoro ti devi bruciare le mani e stare lì per ore interminabili. Non bastano i libri e la tv, devi provare e riprovare. Testa bassa, lavorare duro e imparare il più possibile. Poi è importante viaggiare e confrontarsi, solo così capisci se sei bravo o meno». —