il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2019
L’Italia vista da Mark Twain
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Un americano a Roma, e Firenze, e Venezia, e Milano... Ovvero un turista banalotto, anche se si chiama Mark Twain ed è il padre nobile della letteratura statunitense. Almeno è sincero: In questa Italia che non capisco, scrive nei suoi appunti sparsi del Grand Tour, editi nel 1869 e ora riproposti da Mattioli 1885. Bacchettone, provinciale, grossolano: il Twain pellegrino è il tipico uomo del fare che non apprezza, e forse neanche capisce, l’arte: “Quanto a quegli schizzi (di Michelangelo e Leonardo, n dr ), beh, meglio lasciar stare”. All’Italia contesta soprattutto l’indolenza e l’immobilismo, tipici del Paese “più miserabile e principesco della terra”, adagiato sulle gloriose rovine del passato. Ecco le sue cartoline.
GENOVA. “La ‘Superba’ sarebbe un appellativo calzante se si riferisse solo alle donne: bellissime, chiarissime di carnagione; molte hanno gli occhi azzurri”. Lo scrittore marpione è selettivo anche in altri vizi: “Non azzardatevi a fumare il tabacco italiano” perché scadente e riciclato da perniciosi “cacciatori di mozziconi”, che infestano la città insieme a “fantasmi, deprimenti lacchè e frati, cioè consumati affamatori del popolo”.
MILANO. Che meraviglia, il Duomo, “così enorme e solenne, così imponente! Lì siamo rimasti impalati”, per poi “bighellonare” tra l’Arco della Pace, la Scala e la Biblioteca Ambrosiana. C’è tempo pure per una sosta pensosa, in cui compiangere la sorte del “signor Laura, quel povero misconosciuto” marito della donna amata da Petrarca. Spiace, invece, per le signore della buona borghesia meneghina: hanno “un lieve accenno di baffi, sono vestite senza troppe pretese”. E che delusione L’ultima cena: “Le copie sono di gran lunga meglio dell’originale... Non si vede nulla! I colori sono sbiaditi, i volti scomparsi, i capelli una macchia confusa”.
COMO. Cittadina “curiosa”, lago “pittoresco”, ma troppo piccolo e limaccioso: uno sputo al confronto col lago Tahoe, e alla faccia di George Clooney. L’attrazione migliore – nel comasco – sono le ville. Meritano una visita anche la “graziosa” Lecco e Bergamo, “famosa perché è la città natale di Arlecchino”.
VENEZIA. “Arrogante, invincibile, magnifica. La sua gloria è finita, la sua grandezza sgretolata: galleggia su lagune stagnanti, abbandonata e ridotta sul lastrico, dimenticata dal mondo... È un paradiso per gli storpi e sembra una città dell’Arkansas”. Solo di notte, al chiaro di luna, ritrova il suo antico splendore. Ocio.
FIRENZE. “Per un po’mi è piaciuta”, ma solo per un po’. Che fatica “quelle noiosissime gallerie di quadri, lunghe miglia e miglia”, altrimenti dette Palazzo Pitti e Uffizi e circondate da “folle di luridi mendicanti”. Vergogna. Anche Pisa, “carina”, è piagata da “povertà, decadenza e rovina”. Ma peggio di tutte è Civitavecchia: “Fa un caldo asfissiante. E non c’è nulla da vedere”.
ROMA. “Sembra una fiera di ciarlatani, imbroglioni e truffatori. La religione è il commercio e la ricchezza della città, come letame nella Foresta Nera: è difficile rendersi davvero conto dell’antico splendore”. È molto triste zigzagare oggi “tra le sue meraviglie fatiscenti: ci siamo alimentati della polvere e del decadimento fino al punto che ci è sembrato che anche noi stessimo ammuffendo”. Quanto al Vaticano, somiglia proprio all’Ufficio brevetti americano – uguali –, entrambi “nasi governativi con un certo caratterino”: il primo “c o n se r v a tutto ciò che è curioso e ammirevole nel campo artistico”; il secondo si attiene invece al campo della tecnica.
NAPOLI. Il trionfo dei luoghi comuni, tra “canagliume”, colera, superstizione e ruberie varie. Che cinema, che teatro, “come se Broadway si replicasse in ogni strada”. Attenzione, però, a “non guardare la città troppo da vicino: eliminerebbe gran parte del romanticismo”. Il tipico romanticismo napoletano.