la Repubblica, 3 agosto 2019
Il ritorno di Kevin Spacey
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Riappare così, da un magico cilindro d’arte, serio, concentrato, in giacca e cravatta, accanto a una meraviglosa statua greca in bronzo chiamata il “pugile in riposo”, uno dei pezzi pregiati del museo romano di Palazzo Massimo. È la sua prima apparizione in pubblico dopo due anni di silenzio. Kevin Spacey ha scelto Roma, in punta di piedi, nel segreto assoluto, non annunciato, per una manciata di spettatori, accettando di leggere una poesia di Gabriele Tinti che, in modalità cosiddetta ecfrastica, fa “parlare” la statua: «Bisogna succhiare il cuore di un eroe finché batte», dice e sembra essere lui, esattamente come la statua, un eroe provato ma fiero, seduto, che guarda enigmaticamente di lato come se, stanco e sanguinante, dovesse rientrare sul ring o aspettare il verdetto definitivo. Appena arrivato si è guardato intorno, ha osservato a lungo il pugile accanto a lui, e ha iniziato a declamare, prima quasi sussurrando poi aumentando i toni, tirando fuori la sua voce potente, facendola risuonare tra le bellezze antiche conservate nel museo.
Mentre declama «ho scosso il paese, scrollato le arene, raccolto gli insulti, costretto agli applausi», è difficile non immedesimarsi in lui, attore geniale pluripremiato, due volte Oscar, e condannato a una rapidissima e implacabile “damnatio memoriae” che lo ha letteralmente cancellato dalle scene da quel maledetto 30 ottobre del 2017 in cui il 46enne Anthony Rapp ha raccontato di aver subito molestie dall’attore trentadue anni prima, quando era appena quattordicenne. A dargli l’occasione di tornare a farsi vedere in pubblico è stata la proposta di Gabriele Tinti, poeta eretico, molto poco accademico, molto legato all’idea “detta”, e quindi musicale, della poesia, che dice di aver trovato in lui immediata disponibilità. In quei versi Spacey deve aver trovato una nobile via d’uscita dal tunnel della sparizione. «La vita non è uno spavento per chi non l’ha mai rischiata», dice la poesia di Tinti e di nuovo sembra essere lo stesso Kevin Spacey, la cui storia si sovrappone verso dopo verso a quella immaginaria del pugile in riposo, mentre mima i colpi del pugile, colpi su colpi, come quelli che ha preso in pieno viso l’attore, abbandonato da tutti, mollato da uffici stampa e agenzie, produzioni e registi, in un diluvio di prese di distanze e cancellazioni e ovviamente di altri ex-ragazzi che si sono fatti avanti raccontando di aver subito inviti pressanti, molestie, aggressioni di varia natura. Spacey si è dichiarato sempre innocente e dichiarò anche per la prima volta di essere gay, ma fu aspramente criticato anche per la scelta del timing con cui aveva deciso il coming out. Un dettaglio in confronto al resto.
A luglio la prima buona notizia: l’accusa peggiore, quella di un diciottenne che l’aveva portato in giudizio per adescamento e molestie in un bar di Nantucket nel 2016, cade. Gli accusatori non erano in grado di fornire le annunciate prove fotografiche della molestia. Che Spacey volesse combattere era stato evidente fin da quando aveva postato un video in cui vestiva i panni di Frank Underwood, il protagonista della fortunatissima serie “House of cards” dalla quale era stato cancellato con la scusa di un’improvvisa morte del personaggio, e giocando con ironica ambiguità sulla confusione tra personaggio e vita reale diceva: «Non ho pagato il prezzo per ciò che ho fatto, pensate che sarei disposto a pagarlo per quello che non ho fatto?» e poi «a proposito, nessuno di voi mi ha veramente visto morire. Le conclusioni possono essere molto ingannevoli…».
Di sicuro, se non possiamo essere certi di una resurrezione di Frank Underwood, il suo interprete Kevin Spacey è tornato in scena, anche se su un semplice pavimento, davanti a un pubblico ristrettissimo, accanto a una statua che gli ha permesso di dire con un sussurro gridato al mondo: «I look at myself and see a man, just a man», mi guardo e vedo un uomo, solo un uomo. Un vero colpo di teatro.