la Repubblica, 3 agosto 2019
Intervista a Carlo Cottarelli. Fa il punto sull’Italia
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«Sono 25 anni che la crescita in Italia è molto inferiore a quella del resto dell’area euro, la produttività non aumenta, la disoccupazione specialmente giovanile è a livelli inaccettabili. E ci si interroga disperatamente su cosa fare e quale sia il male oscuro che mina da dentro questo Paese. Bene, le cause sono tante ma ne metterei una al primo posto: il crollo demografico». Detto da Carlo Cottarelli, mister spending review, già dirigente del Fondo Monetario, oggi a capo dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani, sorprende un po’. Altro che debito pubblico o manovre finanziarie azzardate: il problema all’origine di tutto è che non si fanno più figli «e questo scava un fossato in cui l’Italia sta precipitando».
Ma non è un fenomeno condiviso con tutto il mondo industrializzato?
«No, da noi il crollo è più forte. In Svezia quasi non esiste perché hanno investito molto per la natalità, in Francia il calo delle nascite è stato minore, in Germania era forte ma ora il numero medio di figli per donna è in recupero. Ovunque il problema è meno sentito che in Italia, tranne che in Giappone, altro Paese che sta invecchiando e in cui guarda caso la crescita è ferma da anni e il debito pubblico galoppa».
Da economista, qual è tecnicamente il meccanismo deleterio?
«Meno giovani e più anziani significa meno persone che entrano nel mercato del lavoro.
Mancano i più giovani, ideativi, brillanti, e così già crolla la produttività. E la stessa produttività riceve un colpo ulteriore se pensiamo che chi ha figli è portato a fare meno vacanze, più straordinari, a impegnarsi di più per dare un futuro migliore ai figli stessi. La caduta del tasso di fecondità è cominciata all’inizio degli anni ‘70: in 15 anni il tasso scese da 2,5 figli per donna a 1,4 e poi non si è più ripreso, anzi è sceso ancora nei decenni successivi.
Oggi se ne vedono i risultati».
Tutto questo è esasperato al Sud, come ha denunciato lo Svimez?
«Purtroppo sì, proprio la crisi demografica è più accentuata nel Mezzogiorno, già vessato da maggior corruzione, inefficienze, calo della produttività. Bisogna assolutamente intervenire subito.
Oltretutto il Mezzogiorno si sta ampliando fino a comprendere addirittura le Marche dove il modello industriale è in crisi sotto i colpi della concorrenza orientale».
Quali interventi in concreto propone per invertire la tendenza?
«Il rimedio sarebbe spendere soldi pubblici per incentivi e welfare per la natalità. Ma ne servono tanti, non interventi improvvisati. La Svezia spende per questa voce il doppio dell’Italia rispetto al Pil ma se lo può permettere perché non ha evasione fiscale e il debito pubblico è basso: spende lo 0,6% del Pil per interessi, noi sei volte tanto. Ma quello che è più importante è ripristinare un clima di fiducia, di speranza nel futuro, di ottimismo».
Il “modello dopoguerra” di cui parla il maître-à-penser della sociologia Giuseppe De Rita. Lei è stato premier in pectore l’anno scorso, da cosa sarebbe partito per tradurre in fatti quest’ideale?
«Alla base deve esserci la ripresa del cammino di crescita, da perseguire con un disegno lucido, articolato e coerente di riforme in grado di riavviare la macchina arrugginita del Paese. Anche a costo zero. Da quanti anni si sente parlare di burocrazia soffocante?
Chiunque voglia intraprendere una pur semplicissima attività potrà raccontarvi un “defatigante iter” fra carte bollate, uffici pubblici inefficienti e disorganizzati, trappole legislative di norme confuse, intricate e contraddittorie. Eppure c’è ormai una vera letteratura di studi che indicano una serie di revisioni e semplificazioni che con un minimo di buon senso si possono applicare».
L’attuale governo sembra puntare sulla riduzione delle tasse, sfidando i mercati. È una via sensata?
«Per riavviare la crescita ridurre le tasse con interventi razionali e mirati è utile. Il cuneo fiscale ad esempio riduce la competitività del lavoro e la capacità di esportare. Ma ci sono rischi, per un Paese dove il debito è così alto, se il taglio delle tasse si finanzia in deficit, ossia prendendo a prestito altri soldi. Questo sembra che si intenda fare. L’unico modo per tagliare le tasse in modo credibile e duraturo è risparmiare sulla spesa mentre il governo la sta aumentando. Un altro sistema sarebbe ridurre l’evasione fiscale, piaga storica del Paese, ma qui occorre tempo».
Altra strategia in voga è quella degli interventi assistenziali. C’è qualche speranza che così si restituisca energia al Paese?
«Non è curando i sintomi che si guarisce. L’aumento della povertà assoluta in Italia richiedeva un intervento, anche se diversi aspetti del reddito di cittadinanza sono discutibili. Ma aumentare la spesa per pensioni è stato un errore.
Ancora una volta si dà priorità agli anziani a scapito dei giovani.
Pensiamo a cos’è accaduto alla spesa per la pubblica istruzione, specialmente per l’università dove siamo la maglia nera del continente con un budget dello 0,3% del Pil contro una media europea dello 0,7. Da commissario, l’unico settore in cui raccomandavo di non fare tagli era l’istruzione e la ricerca, discorso strettamente collegato con quello iniziale dei freni alla crescita».
Fra le cause del degrado, i populisti insistono nell’indicare l’euro. Cosa gli risponde?
«Che l’avvio della moneta unica è stato caratterizzato da misure diametralmente opposte a quelle previste, come l’aumento degli stipendi pubblici del secondo governo Berlusconi che trascinò al rialzo anche i costi del settore privato e provocò una perdita di competitività. Abbiamo continuato per anni ad avere un’inflazione più alta della Germania, nostro concorrente per l’export. Tra il 1999 e il 2009, le esportazioni sono cresciute zero in volumi mentre quelle tedesche aumentavano di quasi il 70%. Non era un destino che finisse così, come gli anti-euro sostengono, è che la transizione è stata gestita male. Per fortuna le vendite all’estero ora sono in recupero. È la strada giusta: basare la rinnovata capacità di crescere sulle esportazioni facendo valere la forza del marchio Italia».
Guardando alle traversie della Germania, economia basata quant’altre mai sull’export, non le viene qualche dubbio?
«Senta, se guardiamo il tasso di crescita tedesca degli ultimi vent’anni e lo compariamo con il nostro, le assicuro che ci metterei la firma».