Corriere della Sera, 3 agosto 2019
Intervista a Paolo Roversi, il primo italiano che firma il calendario Pirelli
QQ5
«Lo aspettavo da tanto, finalmente me lo hanno chiesto», dice Paolo Roversi in un albergo parigino. Il grande fotografo di Ravenna, a Parigi dal 1973, è il primo italiano a firmare il Calendario Pirelli «che nel nostro mondo rappresenta un incarico molto importante. Pirelli dà carta bianca e queste sono le condizioni ideali per un fotografo: possibilità di esprimersi liberamente, e supporto di grande prestigio».
Per l’edizione 2020 Roversi, 72 anni, ha scelto il tema «Looking for Juliet», ispirandosi a Romeo e Giulietta. «Quando ero piccolo ho visto un film su quella storia in parrocchia con mia madre, e le ho chiesto”ma non si può cambiare la fine?”. È un ricordo che mi ha segnato, nella mia carriera ci sono state tante Giuliette, tanti ritratti di donne straordinarie, ma la ricerca non è finita». Il calendario e il cortometraggio che lo accompagna, firmato dallo stesso Roversi, si fondano sull’idea di un casting, con il fotografo che esamina le ragazze per il ruolo di Giulietta. Tra loro, fatto raro per un calendario Pirelli, c’è un’italiana, «mia figlia Stella, vent’anni. Non è modella di professione, fa una scuola d’arte, ma è la mia Giulietta. Con lei ci sono le attrici britanniche Claire Foy, Mia Goth e Emma Watson, le americane Indya Moore, Yara Shahidi e Kristen Stewart, la cantante cinese Chris Lee, la cantante spagnola Rosalia. In una prima parte arrivano per il casting, vestite in modo semplice e naturale, poi si trasformano in Giulietta con il costume e l’acconciatura d’epoca».
Qual è la sua idea di seduzione femminile?
«La mia concentrazione più forte va sullo sguardo, sugli occhi. Sono all’antica, penso che gli occhi siano lo specchio dell’anima. Poi le mani, che per me sono molto espressive, e raccontano anche loro l’anima delle persone».
Ha avuto il tempo necessario da dedicare a ogni modella?
«Non è mai abbastanza. Ogni volta è un incontro e per me ogni fotografia è un ritratto autobiografico, uno scambio. Il mio soggetto si riflette in me e io mi rifletto nel mio soggetto, un doppio specchio».
Quali tecnica ha usato? Lei è celebre per le Polaroid.
«Che però non esistono più, purtroppo. Ho usato la tecnica digitale, molto semplice. La Polaroid per me era tutto, la mia tavolozza di colori, mi dava qualcosa di misterioso, ogni foto era unica e già questa unicità era meravigliosa, come un dagherrotipo. Ogni immagine un po’ come un incidente, lasciava molto spazio al caso, componente molto importante del mio lavoro. Una delle domande che pongo alla ragazze è se credono nel destino, nella fatalità».
Nel cast tra le altre c’è Indya Moore, l’attrice trans gender rivelata dalla serie tv Pose.
«Ha una bellezza particolare, che mi incuriosisce, mi attira. La bellezza per me è un grande mistero, il mio motore da tanti anni. Indya Moore è stata meravigliosa con me sul set, mi ha sorpreso e questo mi piace. È il bello del mio lavoro. La ricerca della bellezza è infinita».
Quali sono stati suoi maestri?
«Tanti. Da Nadar a Julia Margaret Cameron, da Helmut Newton a Guy Bourdin».
È vero che Bourdin le consigliò di non andare a New York, «il cimitero dei fotografi»?
«Sì, e all’epoca era vero. Ora New York è la pacchia dei fotografi, si diventa ricchi a New York, meno a Parigi o Milano. Ma negli anni Settanta a Parigi Bourdin aveva Vogue che gli faceva fare tutte le foto che voleva, mentre da Bloomingdale’s lo obbligarono a fare certi scatti commerciali e lui si sentiva frustrato, lo diceva in questo senso credo».
Parigi che cosa le ha dato?
«Se fossi Josephine Baker le canterei J’ai deux amours, mon pays et Paris («ho due amori, il mio Paese e Parigi»). Parigi mi ha dato tantissimo, sono arrivato molti anni fa, la moda l’ho scoperta a Parigi, prima non sapevo neanche chi fosse Chanel, ero un analfabeta totale della moda».
Le nuove tecnologie come cambiano la fotografia?
«Oggi siamo tutti fotografi, tutti pizzaioli e grandi chef, tutti siamo tutto. Ma penso che la fotografia sia un’altra cosa, non un’immagine fatta con l’iPhone. La fotografia è un linguaggio che non tutti conoscono, e che va parlato con il cuore, come la letteratura, la musica o la pittura. Bisogna saperci mettere dentro qualcosa di personale, non è facile. Non si impara in 10 giorni, come un pianista non impara a interpretare in modo personale e originale Bach in tre anni di pianoforte. Non è sufficiente fotografare per essere fotografi. Non penso che tutte queste immagini che viaggiano sugli schermi siano vere fotografie. Come in letteratura: una cartolina con scritto tanti saluti da Parigi non è Anna Karenina».
Nel cortometraggio lei è regista e anche interprete.
«Sì, mi si vede brevemente, solo un’apparizione, come Hitchcock. E si sente la mia voce quando intervisto le ragazze per il casting».
Ha trovato la sua Giulietta?
«No, è irraggiungibile, immaginaria. La cerco da sempre, e la cercherò ancora».