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 2019  agosto 02 Venerdì calendario

Il Codice Papeete

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Chissà chi è il giureconsulto che, sul bagnasciuga del Papeete Beach, equivalente leghista delle Frattocchie comuniste, sta erudendo il pupo Matteo sui temi della giustizia. Probabilmente il bagnino, il gelataio, o il ragazzo del cocco. L’altroieri in una diretta Facebook e ieri nella conferenza stampa sull’arenile, l’abbiamo trovato non solo nervosetto, ma anche più ciuccio del solito. Blaterava di una “riforma epocale”, con “tanti avvocati e tanti magistrati” che fanno le indagini e i processi pret à porter, alla svelta. Concetti che parrebbero un po’ rozzi anche al barista del Papeete, il quale – ne siamo certi – domanderebbe a quello che non sembra ma resta comunque il vicepremier e il ministro dell’Interno: “Scusa, caro, ma tu come faresti?”. E lui difficilmente saprebbe rispondere, a meno che non pensi davvero che per ridurre i tempi dei processi basti scrivere in una legge che devono durare di meno. Su questa strada, quantomai impervia, s’era avventurato anche il Guardasigilli Bonafede, prevedendo una durata massima – in varie fasi scadenzate – di 9 anni. Ma Salvini era saltato su: “Sono troppi, facciamo 4”. Tanto valeva scrivere “un giorno”, o “un’ora”, o “un minuto”. Tanto è gratis. Il guaio è che non serve a niente, altrimenti per evitare i ritardi di treni e aerei basterebbe una bella legge che li obbligasse ad arrivare in orario.
Alla fine s’era trovato l’accordo su 6 anni. Bonafede, che diversamente da Salvini ci capisce, non pensa certo che la scadenza per legge risolva tutto. Infatti ha previsto interventi su alcuni colli di bottiglia che inceppano il processo: filtri alle impugnazioni; notifiche via e-mail agli avvocati al posto di quelle brevi manu agli imputati (che non si fanno trovare apposta); e 10 mila assunzioni in tre anni, fra magistrati e personale ausiliario, per riempire un po’ di vuoti in organico. La durata prefissata per i procedimenti serve a costringere i magistrati che ritardano sul termine a giustificarsi dinanzi al Csm: se poltriscono, è una “negligenza inescusabile” che comporta la sanzione disciplinare; se invece hanno troppo lavoro per smaltirlo tutto nei tempi previsti, sono scusati. In ogni caso, il procedimento disciplinare non fa piacere a nessuno, perché basta aprirlo per bloccare la carriera al togato. Dunque è un deterrente contro i lavativi: peraltro non molti, visto che nelle classifiche Ocse i magistrati italiani risultano molto meno numerosi e molto più produttivi dei loro colleghi. L’altra sera in Cdm la ministra Bongiorno – che dovrebbe occuparsi di PA e invece fa il Guardasigilli ombra – ha accusato Bonafede di eccessiva prudenza.
Al che il vero ministro le ha domandato: “Tu che vorresti, di preciso?”. E quella: “Non so, qualcosa di forte”. Un brandy? Un whiskino? In sei mesi la Lega non ha prodotto uno straccio di emendamento al testo Bonafede. La verità è che la decisione di mettersi di traverso sulla giustizia l’aveva presa Salvini mentre faceva scendere il suo Trota dall’acquascooter della Polizia: così, tanto per rompere un po’ i coglioni al governo e far sparire le gesta di Savoini, Siri, Arata, Fontana e dei suoi agenti ad personam e ad familiam dalle prime pagine dei giornali. Ma anche l’ennesimo no che diventa sì allo sbarco dei migranti dalla nave Gregoretti. Poi, già che c’era, ha tirato fuori uno slogan che doveva aver sentito da qualche parte in un’altra vita: una roba tipo “separazione della carriere”, o “delle barriere”, o “delle corriere”, o forse “del Corriere”, o magari “delle miniere”, non ricordava bene. E l’ha buttata lì, anche perchè pensava di fare un dispetto ai magistrati che danno noia a tanti amici e compari suoi. Non sa che le carriere di pm e giudici sono già di fatto separate dal famigerato Ordinamento giudiziario Mastella-Castelli. E che separarle anche de jure non cambierebbe la vita di nessun magistrato (mentre cambierebbe, e in peggio, quella di noi cittadini). Oltre a essere escluso dal Contratto di governo. Non sapendo più a cosa attaccarsi, Salvini&C. si sono ricordati che gli amici e compari imputati hanno il terrore delle intercettazioni: perché potrebbero subirle, o le hanno già subìte, e poi i giornali le pubblicano e la gente scopre quanto sono ladri o collusi. E allora han tirato fuori pure quelle. Poi qualcuno, pazientemente, ha aperto il Contratto di governo, firmato anche da loro: “In materia di intercettazioni è opportuno intervenire per potenziarne l’utilizzo, soprattutto per i reati di corruzione”. E una delle prime leggi di questo governo, votata anche da loro: quella che cancella la norma Orlando che imbavagliava la stampa vietando di pubblicarle.
Ci avevano provato in tanti: per esempio, nel 2011, B. e l’apposito Alfano, che trovarono sulla propria strada una battagliera deputata finiana: tale Giulia Bongiorno. Che si dimise financo dalla commissione Giustizia: “Non sarò la relatrice di questo obbrobrio”, tuonò come un’ossessa contro quello che B. aveva trasformato in un “black out per l’informazione”. Ora ha cambiato idea, anzi padrone (da Fini a Salvini): “Occorre evitare la pubblicazioni dei verbali nelle fasi precoci del procedimento”, dice come un B. qualunque, invocando sanzioni ai cronisti che pubblicano “intercettazioni gossip” (decide lei quali). Ciò che nessuno osa dire è che la Lega, ma pure FI e Pd, sono terrorizzati dalla Spazzacorrotti, che per i reati commessi dal 1° gennaio 2020 blocca la prescrizione alla sentenza di primo grado. Gli scandali finora noti non c’entrano: lì vale la vecchia prescrizione extralarge. Ma i partiti si portano avanti: stanno già programmando i piani quinquennali delle mazzette 2020-2025. Dal Tav in poi. I ladri presenti e passati sono in una botte di ferro. Ora bisogna mettere in sicurezza quelli futuri.