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 2019  agosto 02 Venerdì calendario

L’amore segreto di Pavese

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Doveva essere la primavera del 1949, nei giorni in cui Cesare Pavese (1908-1950) stava terminando di scrivere Tra donne sole, uno dei tre romanzi che compongono La bella estate. C’è un appunto nel diario, Il mestiere di vivere, datato 26 maggio 1949, che ne attesta la conclusione: “Finito oggi Tra donne sole. Gli ultimi capitoli scritti ciascuno in un giorno. Venuto con straordinaria, sospetta facilità”.
Magari è facile in quelle settimane anche il rapporto dello scrittore di Santo Stefano Belbo con Letizia, una giovane donna che insegna il catechismo alle bambine che frequentano l’oratorio della chiesa torinese della Santissima Annunziata. È un edificio secentesco, ma rifatto tra il 1919 e il 1934, situato nell’antica via Po, nel cuore della città; una strada che è al centro di Tra donne sole, come ricorda Clelia, la protagonista del romanzo, che in via Po ci va ogni giorno per allestire una boutique. “Soltanto le ore che passavo in via Po”, si legge nel libro, “non mi parevano perdute”.
Nelle biografie di Pavese, invece, la memoria di Letizia si è persa. Nessuna lettera, nessun biglietto, nessun accenno tra le carte pavesiane conservate all’Università di Torino. Non è neppure menzionata tra le donne sconosciute, delle quali non si è potuto stabilire l’identità, menzionate fra il 1948 il 1949 nel Mestiere di vivere, come Vanna, Filippa, Marisa, Irene. Solamente Emilio Azteni, che da anni gestisce una pittoresca e nota birreria della vecchia Torino, se la ricorda. E rammenta che a quell’epoca, sul finire degli anni Quaranta, tra i ragazzi e le ragazze dell’oratorio dell’Annunziata si diceva: “La catechista Letizia e lo scrittore Pavese escono assieme”.
Si incontravano con ogni probabilità mentre Pavese stava lavorando a Tra donne sole. Forse passeggiava con Letizia sotto i portici di via Po, fermandosi in qualche caffè, come il Caffè Elena, tuttora esistente. Com’era Letizia? “Alta e magra, graziosa”, dice Azteni, “e portava gli occhiali. Me la ricordo abbastanza bene, come ricordo che si diceva che fosse un’amica o la donna di Pavese. Lui, però, non me lo rammento, credo di non averlo mai visto. Qualcuno, comunque, lo aveva incontrato dalle parti dell’Annunziata, mentre fumava la pipa”.
Fu una vera relazione quella fra Pavese e Letizia, oppure una frequentazione sporadica? Chissà. Certo è che nella vita sentimentale – travagliata – dell’autore di La bella estate, segnata dalle passioni per Tina Pizzardo, Fernanda Pivano, Bianca Garufi e Constance Dowling, c’è stata un’altra donna, Elena Scagliola, l’identità della quale è rimasta sconosciuta fino a pochi anni fa. Un’assenza motivata, innanzitutto, dalla morte di lei, appena tre anni dopo il suicidio di Pavese, avvenuto il 27 agosto 1950; e poi dalla decisione, da parte di una sorella della donna, di bruciare le lettere inviatele dallo scrittore dagli inizi degli anni Trenta al 1942.
Il tempo cancella, a volte restituisce. Un pronipote di Elena, Paolo Scagliola, scoprì in casa, ad Alba, le copie di alcune poesie che Pavese aveva dato a Elena. Ne parlò con Ugo Roello, a lungo responsabile della Biblioteca “Luigi Einaudi”. I due andarono a trovare l’avvocato Igino Scagliola, anziano fratello della donna e nonno di Paolo. Così Elena Scagliola riemerse dall’oblio, e dunque la storia di una giovane donna bruna e minuta, libera (amava fumare il toscanello), vivace e colta, che non aveva esitato ad andare a vivere da sola per qualche mese in Francia per potere perfezionare il suo francese, che avrebbe insegnato. Era nata e cresciuta in una agiata famiglia di commercianti di vino di Santo Stefano Belbo.
L’avvocato Igino Scagliola, fratello di Elena, morto qualche tempo fa, ricordava bene la prima volta che vide Cesare in casa sua, a Santo Stefano Belbo. Era il periodo in cui lo scrittore veniva a trascorrere qualche giorno nel suo paese, affittando una stanza alla trattoria della stazione, nei pressi dell’abitazione di Elena. Raccontò l’avvocato: “Doveva essere settembre, si era all’imbrunire. Rientravo dopo avere fatto la mia partita di biliardo. In salotto trovai tutto buio. In un angolo mia mamma sonnecchiava su una poltrona. Pavese e mia sorella erano seduti sul divano, lui stava con le braccia dietro la testa, appoggiato allo schienale, e guardava verso il soffitto. Nessuno parlava. Ho acceso la luce, ci siamo salutati. Dopo, quando Pavese se ne è andato, ho chiesto a mia madre che cosa avesse detto ad Elena. E lei: ‘In due ore non ha detto una parola’. Ma è probabile che non parlassero perché non erano soli, come avrebbero preferito”.
Elena, nata nel 1899, morì nel 1953, dopo essersi sposata con un cugino nel 1947. Quando la sorella Gisella riordinò le sue carte, si imbatté nelle lettere di Pavese. E volle bruciarle. Del loro amore, allora, scomparve ogni traccia, fino al giorno in cui un pronipote scoprì le copie di quelle poesie. Accadrà anche per Letizia, la catechista della Santissima Annunziata?