Libero, 2 agosto 2019
Scrivere come Hemingway
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La scrittura letteraria non è soltanto una tecnica, ma una predisposizione. La predisposizione, tuttavia, ha bisogno di essere indirizzata e il gusto si può perfezionare (e in effetti tutte le scuole di scrittura serie si indirizzano solo agli allievi con una predisposizione, e non di rado li rovinano). E benché ci siano moltissime scuole di scrittura, spesso con indirizzi molto diversi (immaginiamo ad esempio che ben diversa sia la didattica della scuola Holden fondata da Alessandro Baricco dai laboratori di scrittura di Chuck Palahniuk, l’autore di Fight Club) c’è uno scrittore che, quale che sia la valutazione su di lui e sulla sua opera, rappresenta una tappa obbligata per chi voglia approfondire la propria predisposizione alla scrittura: Ernest Hemingway, a proposito del quale segnaliamo anche la recente uscita del volume Hemingway, l’uomo e il mito a cura di Michael Katakis (Mondadori, 210 pagg., 24 euro) che raccoglie i pezzi più significativi tra fotografie, lettere, liste, e altro materiale dalla Hemingway Collection della John F. Kennedy Library di Boston. IL MITO Ma come nasce il mito di Hemingway? E perché viene ritenuto, per consenso universale verrebbe da dire, un maestro di scrittura sotto il profilo strettamente tecnico e, anche chi non lo ama, riconosce la potenza e l’efficacia della sua prosa? Si conoscono già molto bene le “ricette” che Hemingway stesso, qua e là, ha dato: citatissimo ad esempio (e molto amato da coloro che lo ripetono senza capirne il contesto e il significato) è il principio dell’iceberg, formulato da Hemingway in un’intervista a George Plimpton, a Cuba, nel 1954: «Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg. Sette ottavi dell’iceberg restano sommersi per ogni parte visibile. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno». Questo “principio” è stato preso alla lettera da scrittori in erba e insegnanti di storytelling (che spesso lo identificano oppure lo accostano a un altro dogma: “show, don’t tell” cioè “mostra, non raccontare”) che si preoccupano moltissimo di scrivere racconti in cui “i sette ottavi dell’iceberg restino sommersi”, senza essersi prima chiesti qual è l’ottavo che invece deve emergere e, soprattutto, senza aver riflettuto al fatto che lo stesso Hemingway non ha sempre rispettato, fortunatamente, questo suo fin troppo rigido principio. Il principio dell’iceberg infatti risale a due anni dopo la scrittura de Il vecchio e il mare, l’ultimo romanzo pubblicato in vita da Hemingway, e vale soprattutto per quel famosissimo, breve libro; per molti non il suo migliore, del resto. Ma nel suo primo romanzo, Fiesta (ovvero Il sole sorge ancora nel titolo originale), del 1926, Hemingway è molto meno ascetico e pur sfoggiando uno stile già secco, maschio (singolare contrasto con quella storia di impotenza sessuale) il campo espressivo è incredibilmente ampio, quasi caotico, e la vicenda, molto più ambigua e complessa di quella raccontata nel Vecchio e il mare, si presta ben poco a essere rappresentata dal principio dell’iceberg. Lo stesso vale per un altro capolavoro di Hemingway, il postumo Isole nella corrente (1970) in cui lo spirito d’avventura che percorre il romanzo è ricco, nient’affatto reticente. Quanto alla regola dello “show, don’t tell”, si può rileggere il bellissimo Avere e non avere (1937) per scoprire un approfondimento meditativo e introspettivo che smentisce quella pigra regoletta che, seguita alla lettera, produrrebbe solo sceneggiature e non romanzi (e infatti Federico Fellini ne formulò una molto simile). INCIPIT Per non parlare dell’incipit di Per chi suona la campana (1940) dove, con l’espediente del dialogo, Hemingway fa una descrizione geografica dei luoghi del tutto “raccontata” e per niente “mostrata”. Ma allora qual è il vero insegnamento di Hemingway, per chi ha predisposizione alla scrittura? Non è né il principio dell’iceberg, né “show don’t tell”, né consigli da scuole medie come “meno avverbi” o “meno aggettivi”, ma, molto più sottilmente, è il sentimento dell’irreversibilità dell’esperienza, nella sua scansione implacabile come un moto perpetuo. La lettura dei capolavori di Hemingway non insegna a lesinare sugli aggettivi o le leggi dell’idrostatica, ma rappresenta la febbrile, divorante avidità della vita che consuma se stessa man mano che si esplica. Vivere è morire, sperimentare è consumare energie, sparare è sprecare munizioni, pescare è svuotare un desiderio che, inaridito, ci soffocherà. Hemingway insegna agli scrittori l’economia dei mezzi non perché è un tecnico, ma perché vede che ogni atto umano è dissipazione.