la Repubblica, 2 agosto 2019
Francesco Rosi visto la figlia Carolina
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Francesco Rosi è nato a Napoli.
Eravamo allora cittadini o eravamo già ritornati sudditi? Credevamo di essere finalmente liberi invece eravamo di nuovo in trappola? Se lo chiede il documentario che col titolo Citizen Rosi ci riporta al cinema di Francesco Rosi e al suo lungo racconto dell’opaca storia italiana, invitato fuori concorso alla 76esima Mostra di Venezia: pensato, scritto, sceneggiato (con Anna Migotto), diretto, prodotto e finanziato da due belle cinquantenni decise a evocare quel tempo di coraggio e speranza, il tempo della loro infanzia e dell’impegno democratico dei loro padri: indignate dal presente, agguerrite sul futuro. La regista Didi Gnocchi e l’attrice Carolina Rosi, anche voce narrante, attraverso il ricordo di Francesco Rosi (novembre 1921 – gennaio 2015) e della sua passione di artista, intellettuale e appunto, come lui diceva, di cittadino, ricostruiscono la nostra eterna, buia storia, un destino che pare immutabile, la nostra scarsa attitudine a diventare Stato, ad essere un paese normale: né allora né oggi.
Carolina Rosi «Abbiamo cominciato a parlare di questo documentario nel 2013, mio padre era molto diffidente, temeva l’autocelebrazione. Era molto sconfortato per il degenerare del paese, voleva impegnarsi contro questa deriva, si chiedeva a cosa erano serviti l’entusiasmo, il coraggio, la resistenza del passato».
Didi Gnocchi «Carolina si era servita di una camerina casalinga per registrare le conversazioni con suo padre sul loro vecchio divano, battibecchi con cui lei teneva in vita Franco condividendo la stessa indignazione e passione. Mi piacevano i piccoli momenti d’amore del passato tra una figliolina di 3-4 anni abbarbicata al padre e un padre che le spiega il suo lavoro e le sue idee. Lui non ha fatto in tempo a vedere il film, però alla fine si fidava e ci aveva raccomandato di mostrarlo nelle scuole, ai giovani, perché si rendessero conto della necessità dell’impegno civile. Lo distribuisce Istituto Luce – Cinecittà, sarà trasmesso da Sky Arte, dalla Rai silenzio» D.G. «Rosi impiegava anni a documentarsi, e per Lucky Luciano aveva incontrato a New York Charles Siracusa, a capo del Narcotic Bureau, e lo aveva convinto a interpretare se stesso. Il fascinoso criminale dal chiuso dialetto siciliano non poteva essere che Gian Maria Volontè, allora la faccia e la voce del nostro grande cinema. Anche in Mani sulla città appare un personaggio vero, Carlo Fermariello, allora consigliere comunale di Napoli del PCI che col nome di De Vita si scaglia contro il palazzinaro Rod Steiger. Il film è del 1963, in bianco e nero, sull’ennesima tragedia italiana, quella dell’abusivismo edilizio legato alla corruzione politica, che continua da 60 anni a seminare distruzioni e stragi. È tuttora impressionante la sequenza, vera, del palazzo che si sbriciola».
C.R. «A Cannes nel 1972 Il caso Mattei vinse la Palma d’Oro, ex aequo con La classe operaia va in paradiso di un altro grande regista italiano, Elio Petri, suscitando una serie di polemiche non solo politiche. A Venezia nerl 1963 Le mani sulla città vinse il Leone d’Oro ma quella sera fu violentemente fischiato. Cinque anni prima sempre a Venezia, La sfida aveva vinto il Premio speciale della giuria. Nel 2012 hanno consegnato a Franco il Leone d’Oro alla carriera, forse un po’ in ritardo: aveva 90 anni, si muoveva col bastone, la testa piena di storie che nessuno gli consentiva di realizzare e quindi era molto infelice. Dimenticare Palermo sosteneva la necessità di legalizzare le droghe per sconfiggere l’immenso potere della mafia, e Craxi proibì all’ Avanti di recensirlo. Il direttore della Mostra del 1963, Luigi Chiarini, aveva rifiutato Salvatore Giuliano definendolo un documentario, il che non era».
D.G. «Il film in bianco e nero del ‘62 sulla drammatica condizione della Sicilia, partendo dalla strage di Portella della Ginestra, quando una folla di contadini riunita per festeggiare il 1 maggio del ‘47 fu decimata dai banditi prezzolati. Abbiamo inserito i filmati di Rosi che si stabilisce a Montelepre per ottenere la fiducia di quella povera gente chiusa in un mondo arcaico, sottomessa e senza speranza e per vedere il cortile di Castelvetrano dove fu fatto ritrovare il corpo del bandito Giuliano ammazzato a 30 anni. Fu quella la prima vera strage di Stato dice il film, la mafia al servizio del potere economico e politico e viceversa».
C.R. «Franco era affascinato dalla morte di Enrico Mattei, presidente dell’ENI, precipitato con l’aereo a pochi minuti dall’atterraggio, assieme al pilota e a un giornalista americano. L’inchiesta decise per il guasto tecnico, mio padre era sicuro che fosse un attentato, come anni dopo fu accertato. Anche questa volta mafia, servizi stranieri e non solo, insieme per eliminare un industriale che immaginava l’indipendenza petrolifera dell’Italia. È forse l’interpretazione più ammirevole di Gian Maria Volontè. Mio padre chiese aiuto al giornalista siciliano Mauro De Mauro, che fu rapito lo stesso giorno in cui disse di aver trovato una verità che avrebbe mandato all’aria il Paese; era il 1970, di lui e del suo corpo non si è più saputo nulla. Anche Franco era stato più volte minacciato».
Immagini dei film, di documentari d’epoca, ricordi familiari, interviste a Rosi e poi le parole di sedici personalità, magistrati come Nino De Matteo e Roberto Calia, registi come Roberto Andò e Marco Tullio Giordana, giornalisti come Lirio Abbate e Furio Colombo, anche Roberto Saviano che parla con Francesco Rosi di legalizzazione delle droghe. È vedere tutti questi eventi insieme, la concatenazione e il ripetersi senza fine del male del paese, male inascoltato, mai cancellato, sempre presente, è bruttissimo.
Oggi le mafie invadono il mondo col loro potere, i servizi segreti italiani, americani e adesso forse anche russi controllano ancora le nostre istituzioni; il susseguirsi dei golpe falliti (di Junio Valerio Borghese, di Giovanni di Lorenzo, di Gladio), forse sono ancora possibili; anche le connivenze Stato-Mafia, e le trattative, le stragi, le tregue, la corruzione e l’asservimento della politica al denaro. Carolina Rosi: «Fa davvero paura, questo nostro lavoro mi ha angosciato ma come diceva sempre mio padre, andiamo avanti».