Corriere della Sera, 31 luglio 2019
Melville l’ambientalista
QQ5
Una mucca: che cosa c’entra una mucca con la balena più famosa del mondo? Herman Melville scrisse Moby Dick in una fattoria che aveva chiamato Arrowhead, punta di lancia, per via di certi ritrovamenti fatti con l’aratro nei campi. Scriveva tutto il giorno, dalle 8 e 30, con una pausa alle 14 e 30. Le pagine venivano subito affidate alla sorella Augusta, che le ricopiava in bella copia. Per distrarsi, Melville andava nella stalla a guardare gli animali mangiare. Il cavallo e la mucca. Gli piaceva specialmente la seconda, il modo in cui muoveva la bocca. Tanto che ne scriveva: «Mastica con grande gentilezza e una tale santità…». Non solo mostri mangia-gambe: l’uomo che aveva navigato dall’Atlantico alla Polinesia, lo scrittore che compose il suo capolavoro marino avendo sullo scrittoio una copia della Storia Naturale del Capodoglio di Thomas Beale e al focolare un arpione da baleniera, amava le mucche. La campagna innevata gli sembrava un mare, e la sua finestra il porto. Lasciò Arrowhead solo quando fu costretto a venderla (al fratello maggiore) e tornare nella città natale New York. Ormai ignorato: a 35 anni, la sua popolarità era finita mentre decollava quella di Walt Whitman, altro gigante della letteratura. Erano nati nello stesso anno, il cacciatore di fili d’erba e il cantore della Balena Bianca. Nel 1819: Herman Melville il primo di agosto. Domani sono duecento anni esatti.
Tutti oggi hanno sentito parlare di Moby Dick. La prima edizione uscì nel 1851 a Londra (s’intitolava The Whale, la balena) e subito dopo in America. Un flop pazzesco. L’autore morì di cuore quasi mezzo secolo dopo, a 72 anni. Completamente dimenticato. Fu solo in occasione del centenario dalla nascita, nel 1919, che partì un «Melville Revival» che non si è più fermato. L’ultimo omaggio l’ha vergato ieri lo scrittore Philip Hoare, autore di quel Leviatano ovvero la balena che è un monumento all’eredità del grande Herman. Se la letteratura non lo fece diventare ricco (tutti i suoi libri gli fruttarono non più di 10 mila dollari), è vero che Melville ha proiettato l’ombra della sua Balena fino a noi. Sul quotidiano The Guardian, Hoare tesse l’elogio della sua straordinaria e vaticinante visione del mondo. La sua modernità. Inseguendo il Capitano Achab alla caccia della balena che gli ha mangiato la gamba, «Melville anticipa l’emergenza climatica e ambientale del nostro tempo», scrive Hoare. Non è certo la prima volta che si fa questo accostamento. Lo sfruttamento totale e indiscriminato della risorsa delle balene (il grasso e l’olio che serviva per accendere i lampioni delle città) è stato paragonato in passato a quello del petrolio. Sul fronte del costume, sul Pequod Melville mise in scena quello che secondo Hoare «potrebbe essere il primo matrimonio gay della storia della letteratura occidentale», con un equipaggio «multiculturale fatto di nativi americani, neri e asiatici». E a bordo c’era pure un inglese della Manica, secondo i calcoli delle autorità dell’Isola di Man, che per i 200 anni hanno emesso un francobollo alla memoria. In fondo l’ispirazione per il suo capolavoro gli venne nel 1849 tra Europa e America, sulla nave che lo riportava a casa da Londra, dove aveva soggiornato dalle parti di Charing Cross sbevazzando in giro, cercando contratti e concludendo poco o niente. Chi volesse ritrovare l’idillio agrario raccontato da Jill Lepore sull’ultimo New Yorker può recarsi a Arrowhead, nel Berkshire. L’albero delle mele di Melville è ancora là. La stalla della mucca è il negozio dei souvenir.