Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2019
Il caso del seggio fantasma
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In meno di vent’anni è la seconda volta che il Parlamento italiano affronta il caso di un partito che non ha candidati sufficienti per coprire i seggi che ha ottenuto alle elezioni politiche. Nel 2001 fu Forza Italia a incappare in questa paradossale situazione a causa del cattivo uso che fece dell’espediente “truffaldino” delle liste civetta alla Camera. In quel caso i candidati mancanti furono addirittura 11. Alle elezioni del 2018 è successo al M5S al Senato in Sicilia.
Il pasticcio questa volta ha una portata minore, visto che riguarda un unico seggio, ma una rilevanza maggiore. In base ai voti ottenuti, al M5S spettano in Sicilia al Senato 17 seggi, ma i candidati a disposizione sono solo 16. Il problema nasce da una aporia della legge elettorale che si è manifestata in seguito al grande successo del Movimento in Sicilia e alla sua decisione – legittima in base alle regole in vigore – di presentare la senatrice Nunzia Catalfo sia nella lista del collegio proporzionale nr. 2 che in un collegio uninominale. La sua vittoria nell’uninominale ha liberato un posto nel listino proporzionale che non ha potuto essere assegnato per la mancanza di candidati. Infatti il Rosatellum prevede che nei listini proporzionali non possano essere presentati più di quattro candidati. Al Movimento, nel collegio plurinominale nr. 2, sarebbero spettati quattro seggi ma senza la Catalfo, che per legge ha dovuto accettare l’elezione nel collegio uninominale, i nomi rimasti in lista sono solo tre.
In questi casi la legge elettorale prevede che si proceda secondo criteri precisi. Il seggio vacante potrebbe essere assegnato (1) a candidati del Movimento non eletti nell’altro collegio proporzionale siciliano, il nr. 1; (2) a candidati del Movimento non eletti nei collegi uninominali; (3) a candidati non eletti in liste coalizzate a quella del Movimento. Nel nostro caso con nessuno di questi criteri si è potuto assegnare il seggio vacante. E così la giunta delle elezioni del Senato ha approvato a maggioranza nella seduta del 26 giugno 2019 una proposta che dovrà essere votata ora dall’aula. Per risolvere il problema, la giunta si è inventata un altro criterio non previsto esplicitamente dalle norme in vigore. Il seggio vacante in Sicilia verrebbe assegnato a un candidato del Movimento in Umbria in virtù del fatto che in quella regione il Movimento ha «la maggior parte del quoziente non utilizzata». Risparmiamo al lettore la spiegazione di questo tecnicismo. Non è questo che conta. A noi interessa la questione di principio.
In questo caso i princìpi in ballo sono tre: (1) la norma costituzionale che prevede che il Senato sia eletto su base regionale; (2) la salvaguardia della composizione del Senato; (3) il rispetto della volontà popolare. La soluzione proposta dalla giunta delle elezioni soddisfa il secondo criterio. Assegnando il seggio a un candidato del M5S in Umbria i senatori eletti torneranno a essere 315. Non soddisfa certamente il primo. La Sicilia avrà un senatore in meno e l’Umbria un senatore in più. Quanto al terzo principio la valutazione è più problematica. La volontà popolare non si esprime in astratto, ma nel contesto di un insieme di regole. La base regionale nell’elezione del Senato è una di queste. Sono stati gli elettori siciliani, e non quelli umbri, a decretare lo straordinario successo del M5S nell’isola. Perché dovrebbe essere eletto un senatore in Umbria con i voti dei siciliani? Non è mai successo dal 1948 a oggi che al Senato il seggio di una regione sia passato a una altra.
Detto ciò, occorre però aggiungere che è l’attuale legge elettorale, così come è strutturata, ad aver impedito agli elettori siciliani di far valere la propria volontà. Da questo punto di vista il caso è diverso da quello del 2001 in cui la responsabilità del pasticcio è da attribuire al comportamento scorretto e autolesionista di Forza Italia. Allora la Camera decise che la soluzione più giusta fosse di non attribuire i seggi vacanti. Vedremo cosa deciderà il Senato. Ed eventualmente cosa dirà la Corte costituzionale.