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 2019  luglio 31 Mercoledì calendario

Lettera a Primo Levi a 100 anni dalla nascita

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Caro Primo Levi, l’altra sera sono passato sotto casa sua sperando di incontrarla. Ma era tardi e probabilmente Lei era già rientrato e stava cenando. Perciò mi sono fermato sotto l’ippocastano della sua poesia, Cuore di legno, e ho provato a guardare in su, verso le finestre del suo appartamento. Era tutto spento. Avevo varie domande da porle. Non si preoccupi, non le chiederò, come l’è capitato varie volte nelle scuole dove andava a parlare della sua esperienza nel Lager, perché Lei e i suoi compagni non siete evasi dal campo di Monowitz-Auschwitz. Dopo aver letto e riletto in questi anni Se questo è un uomo mi sembra di aver capito quale sia stato lo shock che ha subito entrando nel campo, dove non valeva la divisione tra amici e nemici che c’era fuori: lì dentro tutti nemici di tutti.
L’ha spiegato in un libro straordinario e terribile, I sommersi e i salvati, dove ha raccontato con esempi — i Sonderkommando e Chaim Rumkowski — la forza coercitiva del potere, il modo attraverso cui corrompe l’animo umano. Quello che vorrei chiederle è come ha fatto a scrivere al ritorno dalla deportazione, a ventisette anni, che il Lager non era nient’altro che «una gigantesca esperienza biologica sociale», come ha compreso che i nazisti non volevano solo sterminare milioni di uomini, ma cambiare la definizione stessa di uomo?
Ogni volta che rileggo il suo primo libro mi colpiscono le quattro storie dei salvati che racconta: Schepschel, Alfred L., Elias e Henri. Ma come è riuscito a catturare sulla pagina il loro carattere, la loro volontà di sopravvivere a ogni costo venendo a patti con il potere dei Kapos e delle SS? L’ha forse aiutato il suo mestiere di chimico? In un suo articolo ha scritto di essere diventato chimico per via del naso, per poterlo usare. Che sia stato proprio il fiuto a farle capire gli uomini così bene e a raccontarli in modo così efficace? Vorrei chiederle anche da cosa le deriva quella capacità di spiegare le piccole cose d’uso quotidiano, e di risalire dai dettagli, dalle minuzie, alle questioni generali. Si tratta di un aspetto che scaturisce dal suo carattere? Ha a che fare con la natura schiva che i suoi amici, ad esempio Massimo Mila, le hanno attribuito? In un suo articolo Mila ha scritto: «Cortese, affabile; ma con quel suo fisico magro, con quella barbetta scattante, con quegli occhietti vivaci, aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma che si lascia avvicinare poco». Ci si ritrova in questa descrizione? Non so se Lei somiglia davvero a un camoscio, ma a vedere le sue foto in montagna, arrampicato sulle rocce o sui tetti dei rifugi, lei sembra davvero un abitante delle vette. Se riuscissi a bloccarla domani all’uscita dal portone, le domanderei: se il suo primo libro, il resoconto del Lager, avesse avuto successo, avrebbe fatto solo lo scrittore? O non è stato meglio guadagnarsi da vivere comechimico, nonostante la fatica che le è costata passare la sera dalla chimica alla scrittura? In fondo da quella attività alla Siva (Società industriale vernici e affini), come dalla deportazione ad Auschwitz, Lei ha tratto l’ispirazione per scrivere. Lo so che è difficile rispondermi, ma che scrittore sarebbe stato senza l’esperienza nel campo di sterminio? Collegato a questo c’è un’altra questione su cui vorrei un suo parere: non ha forse dovuto subire per tanto tempo il ruolo di testimone, il fatto di essere il testimone per eccellenza, prima dell’antifascismo e poi dell’Olocausto, lasciando così in secondo piano la sua identità di scrittore? Questo non l’ha limitata nella sua possibilità d’esprimersi come narratore?
Una cosa che mi sorprende sempre è il modo con cui le sembrano parlarle gli animali, cui ha prestato spesso la voce, e anche le piante, le cose, gli oggetti in generale. Ho in mente un suo articolo in cui racconta i marciapiedi di Torino e le gomme da masticare spiccicate sui selciati, le loro qualità organolettiche e cinetiche. Mentre cammina per strada cosa guarda?
L’invidio sinceramente per questa sua capacità di mettere a fuoco cose che gli altri non vedono. Non è forse proprio quest’attenzione che dà forza a ciò che ha scritto sul Lager? E poi l’attenzione rivolta agli oggetti del lavoro, come la chiave a stella, o alle mani, nostro primo strumento? E ancora: come le è venuto in mente di criticare Manzoni per i gesti sbagliati che fa Renzo nei Promessi sposi? Non era Manzoni uno dei suoi maestri insieme al sommo poeta Dante?
Già che ci sono, perché è stata così importante per lei la cultura del liceo classico, non è forse lei più un tecnico che non un umanista? Lo so che ha già risposto molte volte nelle interviste, che non sono poche (ne ho contate oltre trecento, quasi tutte negli ultimi quindici anni), tuttavia Lei ha parlato di sé come un uomo diviso, tra chimica e letteratura, tra identità ebraica e italiana. Perché ha scelto proprio la figura mitologica del Centauro per raccontare la sua natura doppia? Non è il Centauro diviso piuttosto tra natura animale e natura umana?
L’animale-uomo, come lo chiama Lei, è quello che si rivela nel Lager, quando gli sperimentatori nazisti hanno voluto capire «che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’animale- uomo nella lotta per la vita». Non siamo forse noi tutti anche degli animali, e sempre in lotta, come diceva un altro suo maestro Konrad Lorenz? Un’ultima cosa. Ho letto la lettera che ha scritto nel novembre del 1945, appena tornato da Auschwitz, ai suoi parenti rifugiatisi in Brasile nel 1938 dopo le leggi razziali, per raccontare quanto le era accaduto. C’è una parte sull’Italia che mi ha molto colpito: «Quanto all’Italia, forse qualcosa già sapete. La parte migliore della nostra generazione (nel Nord: a Sud le cose si sono svolte diversamente) ha partecipato alla resistenza contro i tedeschi e i neofascisti, poi alla guerra partigiana e all’insurrezione dell’aprile ’45. Com’è d’uso, i migliori sono scomparsi, e a cose finite la scena è stata invasa dall’ambizione e dalla dubbia fede. Le superstiti coscienze integre sono deluse: il fascismo ha dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi ma non è morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina materiale e morale in cui esso ha indotto il popolo. Fa freddo, c’è poco da mangiare, non si lavora; fiorisce il banditismo, e mentre si parla di democrazia sociale, crescono mostruosi nuovi capitalismi nati dal traffico nero: è l’aristocrazia più antisociale».
Fatte le debite differenze, sembra scritta oggi. Per questo, caro Levi, credo che abbiamo ancora bisogno di Lei del suo sguardo. Proverò a passare di nuovo sotto casa sua nelle prossime settimane nella speranza di intercettarla. Uno come Lei non nasce tante volte in un secolo, e noi siamo stati fortunati ad averla e possiamo continuare a leggerla ancora. Buon centenario!
Suo Marco Belpoliti