la Repubblica, 31 luglio 2019
L’eroina del MeToo cinese
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«Sono felice di aprire la strada». Per quattro anni Zhou Xiaoxuan ha fatto come tutte, in Cina le vittime di molestie non parlano. Anche lei si era lasciata silenziare, dalle pressioni della polizia e di chi le stava attorno. Una stagista alle prime armi contro uno dei presentatori tv più amati del Paese, ci si può solo rimettere. C’è voluta una scossa per convincerla a farsi avanti. Lo sfogo di un’amica violentata da ragazza, condiviso con coraggio online. «Volevo mostrarle che non era sola», dice Zhou della notte di un anno fa, quando anche lei ha preso il cellulare e buttato fuori tutto. Zhu Jun, 55 anni, il volto dello show di Capodanno, l’aveva assaltata in camerino. In poche ore la denuncia ha invaso i social network. E prima che la censura comunista arrivasse, Zhou era diventata il simbolo di #MeToo in Cina. Ispirazione per altre a parlare, bersaglio di odiatori da tastiera. Accusata dallo stesso Zhu di diffamazione. «Non mi importa come finirà il processo», dice a Repubblica in una caffetteria di Pechino, minuta, un viso che dimostra meno dei suoi 26 anni. «Voglio solo che si discuta della condizione delle donne cinesi, che le vittime di violenza capiscano che non è colpa loro».
Se ne discuterà? L’udienza del processo, prima causa civile per molestie sessuali in Cina, non viene convocata: «Non so se ci sono ragioni politiche – dice Zhou – non ci danno notizie, ma prima o poi la devono fissare». Nessuna rabbia, solo tranquilla determinazione. Oggi fa la sceneggiatrice freelance, ma era una studentessa 22enne quando nel 2014 ha ottenuto uno stage negli studi di Arte e vita. Dentro Cctv, la tv di Stato che tutti guardano, alla corte di Zhu Jun, microfono d’oro. «Sembrava un padre e un marito affettuoso – ricorda – portava moglie e figli alle riprese». Finché un giorno Zhou entra in camerino per intervistarlo. Lui la tira a sé, si propone di aiutarla con la carriera: «Ha detto che assomigliavo a sua moglie, ha cercato di infilare una mano sotto la gonna, ho resistito, mi ha afferrato i capelli e baciata». In quel momento arriva qualcuno, lei scappa. Le telecamere del corridoio la riprendono mentre si pulisce la bocca.
Lui nega: sarà il tribunale a stabilire la verità. Ma già si può dire come è andata a Zhou, a una donna cinese che denuncia una violenza. Lo aveva fatto quella sera stessa, solo che due giorni dopo la polizia ha chiamato i genitori a Wuhan, spiegando loro che il presentatore veicolava «un’energia positiva» e il futuro della figlia poteva essere rovinato, fosse stata additata come vittima di stupro. Da Zhou si presenta invece la professoressa che le aveva procurato lo stage, dicendo che lo scandalo le avrebbe fatto perdere il posto, con un bimbo piccolo a casa. Così Zhou ha lasciato stare e ha voltato pagina, fino alla sera dello scorso luglio. In mezzo al polverone, oltre ai messaggi di supporto, sono arrivate minacce e accuse. Ma nulla, riconosce Zhou, rispetto agli attacchi subiti da Liu Jingyao, la studentessa di buona famiglia che ha denunciato per stupro il miliardario dell’e-commerce Richard Liu. Un video li mostra che salgono sotto braccio in camera, per molti mostra che lei era consenziente.
«La mia storia è vista come la ribellione del debole contro un potente, invece lei non rientra nel canone della “vittima perfetta”. La gente pensa che le donne dovrebbero resistere, a costo di farsi picchiare, altrimenti non è violenza».
È contro questa mentalità che Zhou ora combatte. Contro una cultura confuciana che nei luoghi di studio o lavoro permette ai potenti, ai maschi, di spadroneggiare. L’anno scorso in Cina sono emersi decine di casi, ma prima che l’armonia sociale ne risentisse la censura ha fatto il suo dovere. Per molti il #MeToo cinese è già finito, per altri mai neppure cominciato: «Non è un movimento – ammette Zhou – ma almeno è un’onda, l’unica onda femminista vista qui negli ultimi anni». E dei risultati ci sono: il governo ha inserito le “molestie” nel codice civile, così lei ora ha chiesto di poter modificare l’accusa verso Zhu, prima registrata come “violazione della dignità personale”. E poco importa se la pena massima sono cinque giorni di carcere. «Non possiamo aspettarci progressi radicali – dice Zhou – solo aumentare la consapevolezza delle persone e sperare che la legge segua». Che se ne parli. Per Zhou Xiaoxuan è già molto.