la Repubblica, 31 luglio 2019
Uomini contro tigri in India
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Il numero d i tigri in India è cresciuto negli ultimi quattro anni fino a sfiorare quota tremila: lo ha annunciato con orgoglio il primo ministro Narendra Modi in occasione della giornata mondiale dedicata all’animale, lunedì. Si tratta di un «traguardo storico», ha detto Modi. Ma nelle isole Sundarbans, il più grande delta di mangrovie del mondo, compreso tra India e Bangladesh, una sorta di Amazzonia dell’Asia, dove vive la Tigre reale bengalese, non molti condividono i suoi toni trionfalistici.
Il conflitto fra gli uomini e le tigri in India è progressivamente aumentato dagli anni ’70 quando Nuova Delhi ha inaugurato il programma di conservazione che ha creato zone protette per questi animali e reso un reato ucciderli. In un Paese in cui le risorse naturali diminuiscono a vista d’occhio, complici i cambiamenti climatici e l’inquinamento, uomini e tigri combattono sempre più spesso per risorse e territorio. Le Sundarbans sono un caso esemplare. Qui intere isole si sono abissate negli ultimi decenni: con esse sono svaniti 10mila ettari di giungla, al ritmo di 200 metri l’anno, e le tigri non si accontentano più di sbranare gli uomini che s’azzardano a entrare in cerca di miele, gamberetti e pesci nel loro regno di mangrovie. Sempre più spesso attraversano a nuoto fiumi e canali – caso unico al mondo – per sfamarsi di bestiame e abitanti dei villaggi.
I morti sono ufficialmente più di 200 ogni anno, l’ultimo il 29 luglio: Arjun Mondal, padre di tre figli, un ex attivista della Ong Sundarban TigerWidow Welfare che sostiene i superstiti degli assalti animali, è stato aggredito alle spalle mentre attraversava la foresta proibita in cerca di cibo.
Jyotirindra Narayan Lahiri detto Jyoti, direttore dell’unica rivista interamente dedicata alle Sundarbans, ci mostra preoccupato le vecchie e nuove mappe dove il numero delle isole abitate è sceso sul solo lato indiano da 54 a 35. «I due regni animale e umano si sono avvicinati pericolosamente», dice.
Da quando mezzo secolo fa le vaste foreste residue divennero parchi nazionali non può entrarvi nemmeno chi abita qui dai tempi dei sultani e dei britannici, genti spesso deportate dal Bangladesh e dal nord dell’India. Uccidere una tigre reale del Bengala è oggi un reato grave, ma il loro eccessivo ripopolamento sta ponendo il dilemma sempre più drammatico delle priorità di salvataggio.
Già nel ‘79 sull’isola di Morichjhanpi migliaia di contadini e pescatori vennero uccisi su ordine dell’allora governo comunista per impedirgli di coltivare aree di foresta riservate alle tigri. Secondo Nakul Jana, presidente della Ong con la quale collaborava l’ultima vittima, la stima delle 200 persone sbranate ogni anno «non tiene conto del fatto che molte famiglie – per paura di multe e perfino arresti – non denunciano la scomparsa dei loro congiunti andati in foresta senza licenza».
Nelle Sundarbans indiane sono censiti 86 esemplari più altri 120 in Bangladesh. Jana calcola che occorrerebbero in alternativa agli uomini «circa 20 gazzelle l’anno per ogni tigre oltre a cinghiali e scimmie», ma con l’aumento degli animali protetti la selvaggina non basta mai. Nella sola isola di Satjelia le vittime sono state 1800 in meno di mezzo secolo e a Purba Gurguria, ribattezzato “Il paese delle vedove”, la locale Ong Sundarban Jana Samajjibi Mancha calcola che ogni famiglia ha perso fino a 4 membri in due o tre generazioni.
Lungo il fiume Matla che le separa precariamente dalla riserva, le abitazioni sono ornate di immagini o statue di Bon Bibi, “Colei che protegge dalla tigre”. La invocano musulmani e hindu in alternativa a un potere terreno che li abbandona a sé stessi, e nessuno si azzarda a entrare in foresta senza una “puja” (preghiera) per ingraziarsela. Kamala, 68 anni, vedova da 20, offre ancora fiori e frutta alla dèa ma le ripete sempre la stessa domanda: «Perché hai fatto morire mio marito?». La sua vicina Bijoli invece non vuole «sentire più nemmeno pronunciare il suo nome» da quando pochi mesi fa è morto divorato suo figlio Ajoy e lei deve prendersi cura della vedova e di tre nipotini.
In un villaggio vicino la 30enne Bandana è rimasta completamente sola con un bambino che ha oggi 11 anni. Ci confessa che dopo la morte del marito nella foresta ha dovuto cedere in spose le altre figlie di 13 e 14 anni a due forestieri per poche decine di migliaia di rupie, un caso non infrequente. Ma Nakul – che col tempo ha conquistato la confidenza delle famiglie assistite – denuncia fatti ancora più gravi. «Gli stessi ranger del corpo forestale – dice – pretendono da chi torna dalle riserve una parte del raccolto e sparano a chi non cede».