La Stampa, 31 luglio 2019
Giorgio Metta alla guida dell’Istituto di Tecnologia
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Giorgio Metta è nato a Cagliari.
«Dove li vedi i geni? I robot, invece, sono naturalmente visibili. E coinvolgenti. Ecco perché sono così mediaticamente popolari».
Con i robot Giorgio Metta ha imparato a vivere. Ingegnere elettronico di formazione, già ricercatore al Mit di Boston e professore all’Università di Plymouth, ne ha creati tanti, come il celebre iCub, dalle fattezze di bambino, e continua a stimolarne l’evoluzione. «Ormai sono una famiglia estesa, dalle caratteristiche molto varie», racconta. L’Istituto Italiano di Tecnologia è una delle loro case-laboratorio. Un luogo-simbolo. Tanto che a Genova, presto, avranno un nuovo spazio dedicato. Una sorta di «fabbrica» – o di intero ecosistema – in cui svilupperanno ulteriori metamorfosi.
Quella di una «casa», a Genova, accanto alla sede storica dell’Istituto, è una delle iniziative che impegnano Metta, neo-direttore, in carica dal 1° settembre, successore del fisico Roberto Cingolani. «I nostri robot progrediscono e stiamo pensando anche a una generazione di creature volanti, più efficienti in caso di interventi in aree dove si sono verificati dei disastri». Intanto continua la realizzazione del laboratorio di robotica industriale, in cui l’impatto mediatico, forse, è un po’ minore, ma dove a consolidarsi è la prospettiva del business: «Lì si studiano componenti per competenze specializzate. Per esempio quelli che definiamo “organi di presa”, necessari per molte produzioni di precisione».
Intanto alcuni saperi che rendono i robot più intelligenti – di sicuro più efficienti – sono gli stessi che servono per indagare il Dna, costantemente citato eppure così difficile da immaginare e da rappresentare. «Uno dei nostri progetti mischia la genetica con la bioinformatica e l’Intelligenza Artificiale». Si tratta di sequenziare, il più velocemente possibile, una serie di Genomi umani per scoprire anomalie alla base di molte malattie e poi, in prospettiva, per ideare farmaci mirati. «Un modello – racconta Metta – con tantissimi dati da raccogliere e da elaborare e che abbiamo inaugurato con uno studio-pilota su 40 famiglie assieme all’Ospedale Gaslini: è così che abbiamo identificato per molte di loro una serie di geni mutati, scoprendo la causa di alcune malattie che le hanno colpite».
È un primo – e importante – passo per una collaborazione a vasto raggio con l’industria farmaceutica e che accelererà con l’acquisizione di un computer da 4 petaflop: capace di 4 milioni di miliardi di operazioni al secondo, potrà «curiosare» tra miliardi di basi del Dna in poche ore e – aggiunge Metta – portare alla luce, grazie alle informazioni concesse dal Gaslini, variazioni altrimenti invisibili. L’obiettivo finale è salvare tanti bambini dalle esistenze segnate da gravi handicap.
Migliorare la vita di tante persone è anche lo scopo dei robot-aiutanti-badanti. «A Milano, al Centro Riabilitazione Don Gnocchi, abbiamo iniziato i test con R1: affianca i fisioterapisti e aiuta i pazienti negli esercizi, osservandone i movimenti e correggendoli. L’aspetto più interessante è l’efficacia di questa interazione. Un display non è così coinvolgente, mentre la presenza di un robot genera empatia». Merito della sua corporeità. Per quanto meccanica, questa fisicità di superfici luccicanti che celano sensori e circuiti suscita emozioni che un video non riesce a evocare.
Così R1, una sorta di ingombrante bambola su ruote, diventa il potenziale prototipo di altre creature. Quelle che, in un giorno non lontano, saranno coinquilini e partner per la quotidianità. «Casalinghi o ludici, si tratta di robot in fase di studio: studiamo gli algoritmi migliori per renderli adatti a navigare negli ambienti domestici e a riconoscere la voce umana, così da interagire in ogni situazione». Che sia il tenero iCub, molto «friendly», o il massiccio Centauro, pensato per intervenire in caso di disastri, all’Istituto i robot sono concepiti come piattaforme flessibili: ciascuna serve per risolvere problemi che si intrecciano con altri e, di conseguenza, diventa più facile progettare robot «universali», capaci di portare un bicchiere, mantenere una conversazione, andare a fare la spesa.
In questa trasformazione umanoide avranno bisogno di adottare materiali «smart» ed epidermidi intelligenti. E non solo. Altri materiali di nuova generazione sono al centro delle ricerche dell’Istituto. «Per esempio quelli ricavati dalla cellulosa dei residui vegetali e destinati al packaging alimentare: pensiamo che il carciofo del supermarket possa essere impacchettato con i residui di un altro carciofo già consumato. È così che si realizza, per davvero, la filosofia del chilometro zero».
Le applicazioni, in questa area come con la robotica e la bioinformatica, sono una cascata. E per favorire il processo, tutt’altro che scontato e che va sotto il termine impegnativo di trasferimento tecnologico, «ci siamo buttati in un’ulteriore scommessa – dice Metta -. Sfruttando un finanziamento dell’Ue per il progetto “Dih-Hero”, puntiamo a creare un “digital innovation hub”. È un ecosistema che coinvolge, accanto ai nostri laboratori, tanti attori: aziende e start-up, investitori e utenti e, non ultimi, altri centri di ricerca e università, come Bocconi e Sant’Anna di Pisa. L’innovazione passa per la capacità di connettere e di connettersi».—