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 2019  luglio 30 Martedì calendario

Allarme costi nel Golfo Persico

Un minuscolo passaggio di mare che collega il Golfo Persico e quello di Oman. Appena ventun miglia nautiche, quelle di Hormuz. Ma da questo stretto transita un quinto della produzione globale di petrolio, 16 milioni di barili al giorno, e il 30% della produzione di gas liquido, affollato come nessuna lingua di mare al mondo da una flotta multinazionale appartenente a duemila società. Da sempre Hormuz è anche un microcosmo di tensioni geopolitiche scosso da tamburi di guerra. E se l’ampia offerta globale di greggio e derivati rispetto alla domanda tiene relativamente calmi oggi i prezzi, la crisi nata dalla dura partita tra Stati Uniti e Iran – esplosa negli ultimi due mesi con incidenti culminati nel sequestro di vascelli da parte di Teheran – solleva spettri di shock e contagi economici, con l’Asia anzitutto che dipende dal greggio mediorientale.
Microcosmo di tensioni
«Il sequestro di navi è diventato la norma da metà maggio. Con una decina di attacchi ci sono già centinaia di milioni di dollari di perdite e danni a vascelli e cargo, anche senza contare ritardi, interruzioni nel traffico e mancati profitti», spiega Laurence Brennan, docente a Fordham University, specializzato in diritto marittimo. Brennan ne sa qualcosa di scontri nella regione: ex capitano della Marina militare, era a bordo della Nimitz nel 1980 quando partì la fallita missione per salvare ostaggi americani a Teheran. Consulente del dipartimento di Stato e del Pentagono, otto anni dopo è stato coinvolto nel delicato caso dei risarcimenti americani per l’erroneo abbattimento di un aereo civile iraniano con 290 persone a bordo. Adesso teme effetti profondi delle nuove ombre di guerra, che si rispecchiano nell’escalation del “war risk”, delle polizze assicurative sui pericoli di conflitto per il settore dello shipping.
«Temo che si estenda, con le petroliere facile bersaglio». Spiega come «ci siano molteplici polizze, per scafo e cargo, e ora rincarano quelle contro i rischi di guerra. I costi assicurativi per il passaggio nello Stretto appaiono moltiplicati di dieci, forse venti volte. Sono passati da proprietari a armatori e a consumatori. Oltre mezzo milione a vascello, che potrebbero ormai aggiungere due dollari a barile». Brennan dipinge scenari da incubo se le tensioni sfuggiranno di mano: petroliere usate da Teheran per creare disastri ambientali o fatte esplodere nei porti. Occasioni e precedenti non mancano. «Ci avviciniamo al 40° anniversario della crisi degli ostaggi – ricorda -. E la Tanker War, la guerra delle petroliere degli anni 80 nel conflitto Iran-Iraq, vide 400 navi cisterna prese di mira. Nel 1987 gli Stati Uniti intervennero contro navi iraniane in risposta a mine posate nel Golfo».
L’incubo paralisi
L’allarme di Brennan non è isolato. S&P Global Platt, servizio d’informazione specializzato in energia e commodities, prepara costanti aggiornamenti, dice il senior editor Eklavya Gupte. Eric Watkins, Americas Correspondent di Lloyd’s List, che dal XVIII secolo fornisce dati sull’industria del trasporto marittimo, afferma che «navi ed equipaggi sono a rischio in un clima sempre più ostile. Aumentano i costi assicurativi e di trasporto. E se Hormuz per qualunque ragione venisse paralizzato, i rincari energetici sarebbero considerevoli». Questo anche se al momento «le riserve di petrolio sono abbondanti, con 1,55 miliardi di barili e altri 650 milioni in stock d’emergenza nei Paesi Iea».
Suzanne Maloney, vicedirettore di Foreign Policy alla Brookings, concorda che «il mercato è vulnerabile. Siamo in una fase difficile che può peggiorare». Bob McNally, fondatore del Rapidan Energy Group, è scettico su facili vie d’uscita. L’Iran ha «mezzi e abilità per attaccare in modo continuo e intermittente vascelli, interrompendo il passaggio del petrolio per settimane o più». E prevede che persino un apparente ritorno allo status quo precedente lascerebbe premi di rischio di 5-10 dollari a barile. Ali Alfoneh, senior fellow all’Arab Gulf States Institute di Washington, vede sicure conseguenze regionali: «I Paesi del Golfo devono stornare risorse verso la difesa e incidenti e conflitti prolungati possono ridurre investimenti diretti e generare fughe di capitali».
Il Joint War Committee della Lloyd’s Market Association – mercato assicurativo che raggruppa oltre 80 compagnie e controlla un quinto delle polizze marittime – ha formalmente aggiunto Golfo Persico e acque adiacenti alle zone a rischio di «guerre contro gli scafi, pirateria, terrorismo e annessi pericoli» per la prima volta dal 2005, nel pieno della guerra in Iraq. I Protections & Indemnity Clubs, pool per la copertura dei rischi più gravi quali conflitti e disastri ambientali, hanno invitato a stare all’erta sulle raccomandazioni dei singoli Stati dei quali i vascelli battono bandiera, dopo che Londra ha chiesto a navi con interessi britannici di rimanere temporaneamente fuori dall’area. Alcuni assicuratori rifiutano del tutto di coprire rotte nel Golfo.
Il costo della sicurezza
Tremano i colossi del trasporto marittimo. «Prendiamo le dovute precauzioni per proteggere personale e asset», ha fatto sapere il leader di Maersk. Le aziende assoldano guardie e specialisti di sicurezza – aumentate di un quinto da 600 normalmente a bordo dei vascelli nell’area – da società quali Ambrey, Mast o PVI per neutralizzare mine e esplosivi e l’avvistamento precoce di imbarcazioni ostili. Associazioni di proprietari – Bimco, ICS, Intertanko – hanno raccomandato ai vascelli di informare dei loro piani le autorità per facilitare iniziative multilaterali di protezione, quali Operation Sentinel, lanciata ora in fretta e furia dagli Usa con Europa, Paesi mediorientali e asiatici. Londra, dopo il recente sequestro della petroliera battente bandiera britannica Stena Impero, ha annunciato una parallela iniziativa europea.
Ma Maloney di Brookings sottolinea che i grandi nodi restano politici, non militari. Esistono già missioni per pattugliare le rotte commerciali nella regione, le Combined Task Force 150 e 152. «Credo che l’amministrazione americana non valuti appieno i rischi della sua strategia di “massima pressione” sull’Iran, come dimostrato dall’assenza di misure pronte e intese con alleati per rispondere a eventi che erano prevedibili. E i rapporti degli Usa con gli alleati sono semmai diventati più tesi». Latitano chiari obiettivi: «Washington è divisa tra falchi pro-cambio di regime a Teheran e disposti ad azioni militari, nel Consiglio di Sicurezza nazionale, e chi auspica piste diplomatiche, nel dipartimento di Stato». Al contempo «la strategia iraniana è mutata, con le sue azioni vuole creare senso di urgenza nella comunità internazionale, usando anche la Guardia rivoluzionaria, in risposta al prezzo che il Paese paga alle sanzioni americane e all’azzeramento del suo export di petrolio». È una miscela che, con la miccia di nuovi incidenti, potrebbe rivelarsi incendiaria.