Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 30 Martedì calendario

I primi 42 gruppi italiani quotati a Piazza Affari

Radiografia dei primi 42 gruppi italiani quotati a Piazza Affari, a cura di R&S-Mediobanca: un’élite che vale 366 miliardi di fatturato, ma dove da sole Eni (75,8 miliardi) ed Enel (73,1 miliardi) pesano per il 41% (terza per dimensioni Fca Italy con 27,2 miliardi di ricavi). Nell’aggregato sono entrate Cairo, Immsi e Tod’s al posto di Astaldi, Luxottica e Parmalat. Lo scorso anno i ricavi sono cresciuti del 3,3% - la metà rispetto al +6,6% dell’anno prima – ma solo grazie alla domanda estera (+6%), perché la domanda interna latita (+0,2%). Se si guarda alla sola industria, si scopre che di “grande” in termini di dimensioni non è rimasto poi molto e che invece a tener alta la bandiera sono le imprese del quarto capitalismo (medie e medio-grandi) che battono le imprese di Stato per redditività, solidità e efficienza. Il problema, però, sono le risorse per affrontare il futuro: tra Uk, Francia e Germania l’Italia è l’unico Paese dove gli investimenti sono in calo.

Focus sulla manifattura

La manifattura (22 i gruppi del campione, di cui 18 privati) è più proiettata sull’estero - con il 77,5% di export rispetto alla media generale del 54% - e l’unico comparto che assume ancora in Italia: +1,6% gli addetti lo scorso anno contro il dato complessivo di -0,5%. Le aziende pubbliche hanno mediamente dimensioni doppie: 8 miliardi contro 4. Ma le private crescono di più: +3% nel 2018 contro +1,7%; +30,7% negli ultimi cinque anni contro -17,3%. E restano più competitive, con un costo del lavoro pro-capite rispetto al valore aggiunto pro-capite del 54,5% contro il 75,8%. Moncler (31,8%), Recordati (38,1%), Campari (42,9%) e Diasorin (44,4%) le migliori. Stessi nomi al top per redditività, con un margine operativo netto pari al 33% dei ricavi per Recordati, del 30,9% per DiaSorin, del 29,2% per Moncler e del 21,4% per Campari. Dei gruppi sotto l’egida dello Stato italiano Leonardo è il migliore con un margine del 4,8%. L’industria privata nel compresso vanta un margine Ebit dell’11,2%, la pubblica si ferma al 4,7%.

Private più solide, con un patrimonio netto tangibile pari a 2,1 volte i debiti finanziari, mentre le pubbliche sono a 0,7 volte.

Reti d’oro

Per redditività nessuno batte le reti: Snam al top col 55%, segue Terna col 51,4%, ma anche Atlantia si difende bene col 43%. Fca Italy è l’unica società in rosso delle 42, con un margine operativo negativo del 3,1%, e in coda anche per competitività con un Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) del 218,2%.

Dividendi di Stato

Negli ultimi cinque anni i big di Piazza Affari hanno cumulato utili per oltre 46 miliardi, quasi un terzo prodotti dalla sola Enel. Dei 57 miliardi di dividendi pagati nel periodo, 16,3 arrivano dall’Eni, 13,7 dall’Enel. Allo Stato sono andati 11,2 miliardi.

Gli investimenti

Negli ultimi cinque anni gli investimenti dei 42 gruppi considerati sono calati dello 0,5%, con un tasso d’investimento medio (investimenti materiali in percentuale dello stock lordo a inizio anno) che nel 2018 è stato del 5,1%. Nella manifattura, nonostante siano più piccole, le imprese private investono di più: l’8,2% contro il 4,4% delle pubbliche, in valore assoluto 13 miliardi complessivamente negli ultimi cinque anni contro 6. Moncler (29,6%), Ferragamo (16,6%), Ima (15,5%) e Brembo (13,4%) quelle che investono di più.

Il confronto europeo

Il focus è sempre sulla manifattura. Nessuna italiana rientra nella top ten europea, mentre i primi dieci gruppi tedeschi da soli valgono quasi quanto la metà del Pil della Penisola. Piccolo in termini relativi non è bello, soprattutto se le distanze si allungano. Nell’ultimo quinquennio le prime dieci aziende manifatturiere italiane hanno aumentato il fatturato dell’1,9% all’anno, un passo ben più lento delle 10 maggiori società industriali di Regno unito (+5,5%), Francia (+5,4%) e Germania (3,6%). In Borsa valgono un ottavo delle altre. L’Ebit margin delle 10 big italiane è appena del 3,1%, un sesto rispetto a Uk (18,4%), un quarto rispetto alla Francia (11,9%) e meno della metà della Germania (7,8%). 

Dei quattro Paesi, solo in Italia si registrano investimenti in calo: -9% contro il +33,1% della Germania, con un tasso d’investimento che nel 2018 è stato del 4,8% contro il 16,1% dei tedeschi. Dati che si riferiscono sempre ai primi dieci gruppi e come si vede dal grafico a fianco nascondono realtà molto differenti: pesano soprattutto Fca Italy e Leonardo, mentre un’azienda come Brembo ha aumentato gli investimenti nel periodo del 128,9%. Ma sui valori assoluti il confronto è impietoso: 15 miliardi di Capex in cinque anni per i dieci maggiori gruppi italiani contro i 460 miliardi spesi dai big dell’industria teutonica.