Un Tour così umano, generoso, di un caldo tropicale per me vale 9.5, e pazienza se non abbiamo mai visto il mare neanche da lontano e se non ho mangiato nemmeno un’albicocca, ci sono Tour così, altri con tanto mare e tante albicocche, importante è non annoiarsi. Non mi sono annoiato in corsa e nemmeno fuori. Sull’ Equipe il pezzo di commento, che fu di Desgrange, di Goddet, di Pierre Chany, è scritto da un giovane (36 anni) di grande talento, Alexandre Roos. Anche lui ha rotto col passato, i suoi pezzi danno il succo della corsa ma sono pieni di rimandi, giochi di parole, incastri, con frequente ricorso all’argot e ricordano un po’ il Quéneau di Zazie e il Dard di Sanantonio . Aspettandolo a un romanzo, 9 .
Informazione e deformazione (professionale). Sul Tourmalet ho pensato Tour-Malet.
Spassaparola non è una rubrica, è un’intossicazione. Un lettore, civilmente firmandosi, mi ha scritto: la stimo molto e perciò la prego di piantarla con quegli stupidi giochi di parole da ginnasiale. Da ginnasiale forse, ma perché stupidi? Per inciso, Spassaparola nasce su richiesta di Carlo Verdelli e da ginnasiale ero molto più scatenato e incosciente, non avendo lettori che non fossero quelli della V F al liceo Manzoni.
Dove ha studiato anche Matteo Salvini, lo so, e ogni volta che lo vedo o lo ascolto mi chiedo cosa (omissis) gli abbiano insegnato.
Spassaparola, oltre che intossicante, è pure contagiosa.
Ecco quindi, fuori rubrica e a caldo, una definizione inviata dal collega e amico Fabrizio Ravelli.
Addiaccio: brutto modo di lasciarsi. Quanto a Tour-Malet, ho pensato a cos’avrebbe fatto Nestor Burma, l’investigatore creato da Léo Malet, spedito al Tour.
Avrebbe cercato di sedurre qualche miss, come da copione, e di risolvere il caso Passato-Presente, affidatogli da Fernand Perret, rubizzo vecchietto che sosteneva di aver corso da dilettante con Geminiani, detto Grand Fusil. Perché proprio quest’anno il ritorno all’antica?
Dopo aver cercato, invano, di sedurre una o più miss, Burma s’era messo a lavorare seriamente, stilando una lista di responsabili (colpevoli no: e di che?). In primo luogo, mancavano i grandi bloccatori. Poi, principale indiziato Thierry Gouvenou, onesto corridore ai tempi di Hinault, il percorso non solo non favoriva gli specialisti del cronometro, ma era pieno di trappole, strappi, stradine che rendevano dura la pagnotta anche ai velocisti e ai loro pesci-piloti. Ma il tracciato dell’anno scorso l’aveva disegnato sempre Gouvenou e non c’erano stati tutti questi colpi di scena. La corsa, mon cher ami , la fanno i corridori. Sempre. Così gli aveva detto Patrick Léfevère bevendo una birra scura. Così Burma aveva ricostruito la scenografia del Tour e puntato il dito su Alaphilippe.
Era stato lui ad aprire la breccia, non di Porta Pia ma di Porta Via, nel senso che il ritmo della corsa trasportava altrove, era la carica del cavaliere solitario ma anche una canzone d’amore e di libertà.
Una volta aperta la breccia, altri si sono infilati, anche Pinot. Wiggins, vincitore nel 2012, seguiva il Tour in moto per Eurosport. Ha detto: «Che pena vedere Pinot salire sull’ammiraglia e ritirarsi. È stato triste come veder morire un cane». Su Alaphilippe voglio chiudere con una frase di Alfonso Gatto, che come ogni anno porto sulle strade di Francia: «Tutti parlano del proprio cuore. Tutti tacciono col proprio cuore». Proprio tutti no.
Alaphilippe ci ha parlato, l’ha ascoltato, l’ha seguito, l’ha inseguito, è scoppiato felice di scoppiare: 9.5 .
Un Tour di facce, è stato. Non come ai tempi d’ Indurain, sempre quella. Non come ai tempi di Armstrong (idem). La faccia da studente-modello di Bernal, la faccia da attore cupo di Pinot, o da cantautore triste, la faccia senza età di Quintana, quella senza espressione di Thomas, quella da studente fuoricorso di Bardet, quella scolpita nel legno di Nibali.
Facce stravolte, contorte, sorridenti, piangenti, buie, luminose. Facce da uomini in una corsa meravigliosamente umana.
A proposito di Nibali, –10 a quelli che sono andati sul Galibier solo per insultarlo e gridargli che era finito, che andasse a casa. Gli haters si moltiplicano non solo sui social network e i cattivi esempi vengono dall’alto. È stato Ciccone (7 aumentabile) a rivelare questo episodio.
D opo l’Ecuador di Carapaz al Giro, il giallo della Colombia al Tour. Due prime volte, due colpi in due mesi: il Sudamerica non bussa alla porta, la sfonda. In plaza de la Esperanza, a Zipaquirà, c’era un maxischermo il giorno dell’Iseran, e in plaza San Carlos il sindaco Luis Alfonso Rodriguez Valbuena aveva commissionato due settimane fa un mural di 4 metri per 8 raffigurante Bernal in maglia bianca. Avranno già ridipinto la maglia. Bernal è nato il 13 gennaio, come Pantani. Doveva essere scalatore, ma prima voleva diventare giornalista. Non sportivo, però. «Di politica, di economia. Si tratta di spiegare le cose alla gente, e dire la verità», aveva detto due anni fa in un’intervista alla Gazzetta . I primi ciclisti colombiani al Tour li chiamavano escarabajos ,scarafaggi, per com’erano scuri e agili in salita. Adesso, rispetto.
Perché tanti ciclisti in Colombia? Lo spiega a Libération lo scrittore Hector Abad: «Il solo spazio veramente pubblico del Paese sono le vie, le strade. Tutto il resto è privato, chiuso, inaccessibile. Il ciclismo è il solo sport che si può praticare liberamente e senza pagare». E, a volte, produce fenomeni come Egan Bernal (9.5).