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 2019  luglio 30 Martedì calendario

L’italiano è ormai una lingua straniera

Una decina di anni fa sono stata invitata in un liceo romano a parlare dei classici. Non ricordo se avevo scelto Ovidio o Petronio, ma non è importante. L’incontro – accuratamente preparato dagli insegnanti – fu vivace, la partecipazione degli studenti incoraggiante. Ma è solo alla fine, quando la prossemica si scompiglia e gli studenti si avvicinano all’autore per rivolgergli una domanda che si vergognerebbero di porre ad alta voce davanti ai compagni, che le battute del copione saltano e il dialogo diventa autentico. La sedicenne si china in avanti e mi chiede di firmarle la copia di un mio romanzo, premettendo che è per la madre. Bisbiglia che glielo ha fatto leggere, e le è piaciuto. Però ha dovuto tenere vicino il vocabolario, come quando studia inglese. Perché la metà delle parole non le capiva. Sto firmando la dedica, ma mi interrompo, stupita. La guardo. Quel liceo è frequentato dai figli della borghesia – dirigenti, politici, alti funzionari, avvocati. Non si tratta quindi di svantaggio sociale, carenze formative, marginalità. E nemmeno di distrazione digitale (gli smartphone cominciano appena a diventare dispositivi essenziali). Che genere di parole? chiedo (il romanzo in questione è ambientato ai giorni nostri, a Roma, non mi pare contenga parole “difficili"). Boh, non gliene viene in mente nessuna. Lo sfoglio insieme a lei, incuriosita. Ad apertura di pagina ne trova tre. Epiteto, scherno, ribadire.
La lingua italiana è diventata una lingua straniera. Per questo i risultati dei famigerati test Invalsi mi sono sembrati perfino discreti. Da più di vent’anni frequento le scuole italiane di ogni grado (dalle primarie agli istituti tecnici, allo scientifico) e livello – didattico, culturale, sociale e architettonico: dai casermoni fatiscenti nelle periferie della mia città agli edifici modernissimi nelle province del Veneto. Mi sono seduta in aule abitate da alunni di venti nazionalità diverse e altre nelle quali i cognomi del registro erano tutti noti. Sono quindi una testimone e non una protagonista di questo psicodramma nazionale. Ho la fortuna di vivere ore quasi spensierate coi ragazzi e di non doverli costringere a seguire il programma o interrogarli. L’esperienza personale mi ha edotta sul delirio burocratico, il precariato, le carenze di organico e di risorse, le parole belle e vuote delle carte dei diritti e le sciagurate riforme, ma non mi permetto di esprimere sentenze o vaticini. Ne registro però le conseguenze, anno dopo anno e ormai generazione dopo generazione.
Quando una struttura implode, l’edificio resta in piedi, e può sembrare perfino solido, ma le pareti sono destinate a franare, le fondamenta sono squassate, e ciò che resta è un simulacro. La scuola di oggi ha qualcosa di spettrale, anacronistico e in qualche modo commovente. Un simulacro identico a ciò che fu, nel quale si agitano, con abnegazione e dedizione al martirio, insegnanti di coscienza netta e buona volontà. Circondati però da macerie, fanti nella trincea abbandonati o sabotati dai loro comandi. Il destino dei ragazzi è affidato prima alla casta d’origine della famiglia, come tutti i commentatori hanno già notato, e quindi al caso. Un insegnante valido può infondere in loro una scintilla – di conoscenza, quanto meno – altrimenti saranno stati solo anni di parcheggio. Ma i ragazzi stessi cominciano a non poter più cogliere nemmeno quell’opportunità. La peggiore catastrofe infatti non è che l’italiano sia per loro una lingua straniera (lo è sempre stata), e che la matematica resti un privilegio geografico: è che nessuno – né i ragazzi né i loro genitori – crede più che la scuola serva a qualcosa.
L’Italia è stata una nazione giovane, spinta dalla forza lavoro dei suoi abitanti, poveri e incatenati all’ignoranza: nel 1861, al momento dell’Unità, il 74% della popolazione era analfabeta. I padri della nazione erano convinti che solo la scolarizzazione avrebbe portato sviluppo economico: i dati che decennio dopo decennio confermavano la diminuzione di quella percentuale che ci infamava tra le nazioni civili d’Europa hanno accompagnato l’effettiva modernizzazione del Paese. Ma dietro quei dati statistici c’era una speranza reale. Il mio bisnonno analfabeta spronava il figlio a studiare (benché poi dovette farlo emigrare dopo la seconda elementare) perché sapeva che se avesse saputo leggere e scrivere avrebbe avuto una vita migliore della sua. Questa certezza non era un’opinione, ma un fatto che ha cambiato la storia di milioni di esclusi. Oggi l’Italia non è più una nazione giovane (nemmeno per l’età dei suoi abitanti) ed è rimasta analfabeta. Ma lo studio non offre riscatto: il diploma non certifica niente, e la laurea è solo il passaporto per l’espatrio.Ho mantenuto i contatti con decine di quei ragazzi incrociati nei miei incontri di un solo giorno. La metà di loro sono all’estero – per studiare, insegnare o fare ricerca nelle università, ma anche impiegati in aziende, ospedali, ristoranti e alberghi. I rimasti cercano lavoro. Pochissimi hanno figli. Il tempo dello studio è finito, quello della vita non è iniziato. Saper comprendere un testo non ha cambiato in meglio la loro esistenza. Non ha permesso nemmeno loro di pretendere – come cittadini consapevoli – più diritti. (Ne abbiamo tutti sempre meno). Piccole silenziose tragedie familiari che hanno spazzato via qualunque fiducia nel futuro. E la scuola che di quel futuro è già l’immagine, non potrebbe oggi essere diversa. Penuria, incompetenza e interessi erodono gli ultimi baluardi. Ma nonostante il potere si illuda del contrario, non giova a nessuno un popolo ignaro.