la Repubblica, 30 luglio 2019
La guerra hi-tech tra Cina e Usa
Ripartono oggi i negoziati commerciali Usa-Cina dopo mesi di minacce reciproche. La vera posta in gioco non sono gli squilibri import-export, macroscopici ma forse aggiustabili. La “nuova guerra fredda” dovrà decretare un vincitore nella gara per la supremazia tecnologica. È un conflitto dove le tecnologie per usi civili e militari si mescolano e si confondono, i confini tra il business e la difesa o lo spionaggio militare sono ambigui. Imporrà scelte di campo agli europei, messi di fronte a ultimatum: poco spazio per le “terze vie”, bisognerà schierarsi o con Washington o con Pechino. La grande differenza rispetto alla prima guerra fredda: l’Urss fu una superpotenza bellica e ideologica ma rimase un nano economico, poco integrata e ininfluente negli scambi internazionali. La Cina ha 1,4 miliardi di abitanti e 13 mila miliardi di dollari di Pil, un’economia equivalente a quella americana; è penetrata nei tessuti industriali e finanziari dei nostri paesi. È uno scenario senza precedenti.
Una delegazione dell’Amministrazione Trump è a Shanghai da oggi per riprendere le trattative. La guidano il ministro del Tesoro Steven Mnuchin e il responsabile per i negoziati commerciali, Robert Lighthizer. Sul versante cinese c’è un altro peso massimo, il vicepremier Liu He. Il dato più significativo è l’elenco dei temi sul tavolo. Al primo posto c’è intellectual property cioè tutto ciò che riguarda la protezione del know how, segreti industriali, su cui l’America accusa la Cina di furti sistematici.
Al secondo posto c’è il tema del technology transfer : questo include le contestate normative cinesi che obbligano molte multinazionali occidentali a prendersi un partner locale rivelandogli ogni segreto; nonché la vendita di prodotti tecnologici (semiconduttori, micro-chip e memorie elettroniche) dall’America alla Cina che sono finiti sotto embargo. La questione classica degli squilibri commerciali si affaccia solo al terzo posto. Prima di partire la delegazione Usa ha incontrato alla Casa Bianca i top manager di sette big delle telecomunicazioni tra cui Google, Intel, Cisco.
I rapporti di forza tra le due superpotenze sono cambiati a una velocità inaspettata. Ancora all’epoca della grande crisi 2008-2009 era evidente chi fosse il numero uno e il numero due, chi era il maestro e chi l’allieva. L’America intera, in particolare la Silicon Valley, si è distratta al volante e non ha visto il bolide che si avvicinava nello specchietto retrovisore. Ora tenta di correre ai ripari, ma potrebbe essere troppo tardi. Dai responsabili politici di Washington ai top manager dei giganti digitali della West Coast, tutti hanno peccato di complacency : auto- compiacimento e certezza della propria superiorità. Tracce di questa presunzione ci sono ancora, nelle parole della coordinatrice delle politiche sull’A.I. ( Artificial Intelligence ) alla Casa Bianca, Lynne Parker: «All’avanguardia in questo settore ci sono sempre delle imprese americane e delle università americane». Intanto però il 60% dei nuovi investimenti mondiali in A.I. fanno capo a Pechino.
Uno dei primi a lanciare l’allarme è stato un cittadino Usa di origini cinesi che ha una vita divisa tra le due sponde del Pacifico. Kai-Fu Lee è originario di Taiwan ed è cresciuto negli Stati Uniti. La carriera manageriale lo ha portato in Cina come capo della filiale di Google. Poi si è messo in proprio, fa venture capital a Pechino e finanzia delle start-up cinesi nel settore dell’intelligenza artificiale. Il suo libro: A.I. Superpowers: China, Silicon Valley and the New World Order è un invito all’America a svegliarsi dal torpore. Kai-Fu Lee usa il paragone con “lo shock di Sputnik": lo sgomento colpì gli americani nel 1957 quando l’Unione sovietica li precedette nella conquista dello spazio mettendo in orbita il satellite Sputnik. Anche in quel caso la concorrenza tecnologica aveva ricadute militari. John Kennedy vincendo l’elezione presidenziale nel 1960 lanciò la corsa alla luna e altri programmi di ricerca scientifica con finanziamenti pubblici. Oggi l’America deve subire un altro shock-Sputnik. Kai-Fu Lee avverte che nella tecnologia del futuro i cinesi stanno superando l’Occidente. E non solo a furia di copiare. Certamente il saccheggio sistematico di proprietà intellettuale ha consentito all’inizio di recuperare il ritardo, ma Kai-Fu Lee sottolinea il ruolo di altri fattori. La pirateria ha danneggiato anche tante imprese cinesi, vittime di una concorrenza locale spregiudicata. Questo ha generato un ambiente ultra-competitivo, stimolando una cultura imprenditoriale altrettanto diffusa di quella americana e perfino più combattiva. Se molti giganti digitali americani hanno dovuto ritirarsi dal mercato cinese lo si deve a un mix di cause: dal protezionismo puro e semplice, fino alla sottovalutazione dei talenti locali. Nel caso di social media come Facebook ha agito la censura; per Amazon invece la sconfitta è venuta da concorrenti locali più bravi nel capire i bisogni dei consumatori cinesi. Altri fattori pesano nella gara per la supremazia sull’A.I. Primo, la massima secondo cui «nell’èra dell’A.I. i dati sono il nuovo petrolio e la Cina è la nuova Opec». Questo si collega al Deep Learning : le macchine capaci di apprendere da sole soppiantano noi umani in molti campi di attività. Deep Learning — apprendimento profondo – per eccellere ha bisogno di digerire una massa sterminata di dati: Big Data. Un paese con 1,4 miliardi di abitanti ha un bacino di raccolta superiore. Secondo. La natura autoritaria del regime è un vantaggio in quanto ignora restrizioni alla raccolta dati. Noi occidentali tentiamo – con successi alterni – di proteggere la nostra privacy. I cinesi sono rassegnati ad essere spiati dal governo. Il Grande Fratello cinese calpesta i diritti umani: vedi la mappatura biometrica e genetica di milioni di uiguri, i musulmani dello Xinjiang, che fa progredire l’A.I. in settori chiave come il riconoscimento facciale, il riconoscimento della voce. Terzo. Il sistema politico cinese è un misto di capitalismo e comunismo con una forte impronta dirigista. Ai tempi di Kennedy anche l’America era dirigista, i finanziamenti pubblici alla ricerca furono decisivi per la conquista dello spazio. L’America di oggi è passata attraverso la rivoluzione neoliberista di Ronald Reagan, poi abbracciata anche da leader democratici come Bill Clinton e in parte Barack Obama.
Le Amministrazioni Usa si sono convinte che la Silicon Valley è autosufficiente e garantisce da sola la leadership americana nelle tecnologie avanzate. Il presidente Xi Jinping teorizza che lo Stato deve sostenere i “campioni nazionali” del digitale: i tre Bat, acronimo di Baidu Alibaba Tencent. Una sola municipalità cinese come la città di Tianjin stanzia più sussidi pubblici alle aziende dell’intelligenza artificiale, di quanto faccia l’Amministrazione federale per tutti gli Stati Uniti. La città di Pechino ha stanziato 2 miliardi dollari per un parco tecnologico riservato alle start-up dell’A.I. Forte di questo massiccio aiuto statale la Cina ha già sorpassato Stati Uniti, Unione europea e Giappone, per il numero di ricerche scientifiche e brevetti nell’A.I. L’università Tsinghua di Pechino stima a 18 mila il bacino di super-talenti locali impegnati nell’A.I. ed un mercato in crescita del 75% all’anno. Una parte del progresso sarà benefico per tutti, ad esempio nella diagnosi del cancro. Ma la ricercatrice Elsa Kania del Center for a New American Security sostiene che «l’A.I. è parte della gara militare, le forze armate cinesi vedono l’opportunità di superare gli Stati Uniti».
Nelle trattative tra i due governi un colpo di scena avvenne quando Xi Jinping si rimangiò all’improvviso la promessa di riformare le leggi cinesi sulla proprietà intellettuale. Quel voltafaccia spiazzò Trump che credeva di avere già la vittoria in tasca. Fu in seguito a quel ripensamento cinese che Trump lanciò la minaccia di nuovi dazi, che finirebbero col colpire la quasi totalità dei prodotti made in China. Xi ha confermato i timori americani, sul fatto che per la Cina quel che conta non è più invadere il mondo di prodotti, bensì dominarlo attraverso la supremazia tecnologica. Trump ha reagito mettendo sotto embargo Huawei, il colosso delle telecom cinesi all’avanguardia nella quinta generazione di telefonia mobile, la porta d’accesso all’"Internet delle cose”.
L’America tenta, tardivamente, di restituire il colpo alla Cina. Quest’ultima si è già dotata di una robusta muraglia protezionista – la censura – dietro cui ha costruito un Internet separato dal nostro. Uno dei pochi settori in cui la Repubblica Popolare ancora dipende dalla Silicon Valley sono i semiconduttori. Trump ha tentato un embargo che chiuda l’export di questi componenti sofisticati: 300 miliardi di micro- chip made in Usa che vanno a finire dentro gli smartphone Huawei oppure le grandi infrastrutture telecom che il gigante cinese riesporta nel resto del mondo. Il capo di Huawei, l’ex colonnello Ren Zhengfei, ne trae questa conclusione: la Cina deve diventare autonoma anche nei semi-conduttori.
Dalla Silicon Valley si alza un grido, in questa dichiarazione della US Semiconductor Industry Association: «Dobbiamo difendere la nostra leadership nell’A.I., nell’informatica quantica, nelle telecom; non però chiudendoci alla competizione globale».
Pechino infatti ha già cominciato a stilare l’elenco dei “fornitori inaffidabili": le aziende occidentali (o giapponesi, coreane) che obbediscono all’embargo di Trump e non vendono più prodotti hi-tech a Huawei. Le barriere della nuova guerra fredda stanno cancellando decenni di delocalizzazioni, le multinazionali ri-trasferiscono le loro produzioni da un lato o dall’altro della nuova “cortina di ferro”. La globalizzazione scivola verso un’èra glaciale.