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 2019  luglio 29 Lunedì calendario

Intervista a Plácido Domingo

È già nella storia. Anzi, nella leggenda. Come lui, nessuno mai. A 78 anni, è l’highlander dell’opera, l’uomo di tutti i record: prima tenore, poi baritono, direttore d’orchestra e artistico, talent scout, più di 4 mila recite cantate e 500 dirette, oltre 150 titoli in repertorio (nel Rigoletto, ha cantato tre parti: Borsa, il Duca e il protagonista, ennesimo record), più di cento incisioni di opere complete, 12 Grammy e un motto: «If I rest, I rust», se mi fermo arrugginisco. E infatti eccolo a Verona, Plácido Domingo, questo bulimico del palcoscenico, per celebrare i 50 anni del suo debutto all’Arena. Festeggiamento uno e trino: ieri sera ha diretto Aida, giovedì canterà papà Germont in Traviata e domenica in un gala spezzatino in cui sarà Nabucco, Simon Boccanegra e Macbeth.
Lei fa tutto. Ma cosa le piace di più fare?
«Io sono soprattutto felice di essere un musicista».
Le manca qualcosa?
«Soltanto dei personaggi nuovi. Sono curioso e per questo continuo ad allargare il repertorio. Nella prossima stagione, Sharpless della Butterfly al Met e Nottingham del Roberto Devereux a Los Angeles. Poi toccherà a Monforte nei Vespri siciliani e al Belisario di Donizetti».
Ma il tempo per studiare dove lo trova?
«Di notte. Vado a letto alle tre. Un’ottima cosa, a patto di potermi svegliare a mezzogiorno».
L’unico lavoro che non ha mai fatto è il regista. Perché?
«Perché in famiglia ce n’è già una, mia moglie Marta. E poi perché penso che di tutti i mestieri dell’opera sia il più difficile. Inizi a lavorare allo spettacolo un anno prima, devi studiare, documentarti, avere tutto chiaro prima ancora che iniziano le prove. Non penso di averne il talento. Anche perché una volta che ho visto una produzione mi vengono mille idee. Prima, è più difficile».
Quando si è reso conto di essere diventato Placido Domingo?
«Sono sempre stato fortunato. Nel 1962 mi sono sposato con Marta e subito dopo ho avuto un contratto in Israele. In due anni e mezzo ho cantato 280 recite. Potevo uscirne distrutto o artista completo. Beh, diventai un artista completo. Poi andai alla New York City Opera a cantare Don Rodrigo di Ginastera, una parte tremenda. Avevo 25 anni, fu un trionfo. È iniziato tutto lì».
La voce più impressionate che abbia mai sentito?
«Qui a Verona debuttai cantando Turandot con la Nilsson e Don Carlo con la Caballé, più di così... Ma ho duettato con tutte le grandi primedonne, la Price, la Sutherland, la Freni, la Tebaldi. Con un rimpianto solo».
La Callas?
«Esatto. Mai cantato con lei. Peccato».
Chi le manca, oggi, nel mondo dell’opera?
«Ho perso tanti colleghi... Però se devo citarne due, scelgo due grandi direttori: Carlos Kleiber e Giuseppe Sinopoli».
Come ricorda il suo debutto all’Arena, cinquant’anni fa?
«Come una grandissima emozione. Quegli spalti pieni di pubblico sono magici. Era il 1969 e facevamo Turandot. Il coro invocava la luna pallida (canta, ndr) proprio mentre Armstrong ci stava arrivando. La luna non era più vergine. Magia, appunto».
Com’è cambiato da allora il mondo dell’opera?
«Più che cambiato, è cresciuto. Oggi l’opera si fa in Paesi dove mai avremmo immaginato che arrivasse. In Cina, in Corea, in Giappone c’è un pubblico incredibile, appassionatissimo. Le opportunità sono maggiori per tutti».
E le voci?
«Non so se fossero migliori quando ho iniziato io, però sono sicuro che le grandi voci ci sono sempre state e ci saranno sempre. Il mio concorso Operalia l’ha appena vinto un giovane tenore che si chiama Xabier Anduaga e che ha tutto per diventare un fuoriclasse. E poi oggi i cantanti sono più preparati e stanno meglio in scena. Anche perché sono cambiati anche gli spettacoli, per la verità non sempre in meglio».
Ma un nuovo Domingo oggi c’è?
«Forse di tenori non ce ne sono tanti come prima, ma quattro o cinque di gran livello, sì. Vuole i nomi?»
Certo.
«Beczala, Sartori, Kaufmann, Meli».
Sono quattro.
«Aggiungiamo Michael Fabiano».
E della sua Aida, Tamara Wilson, che non vuole truccarsi da nera che dice?
«Che è un tema delicato. Otello è moro, Butterfly giapponese, Calaf tartaro, e da lì non si scappa. Mettiamola così: un soprano bianco deve truccarsi per fare Aida, mentre un tenore nero ha tutto il diritto di restare com’è se canta Manrico».
L’Italia è ancora il Paese dell’opera?
«L’opera oggi è un fenomeno globale. Ma il pubblico italiano è ancora il più esigente. Soprattutto alla Scala e soprattutto per Verdi. Esperto, competente, non sempre giusto».
Il famoso «Questa è una banda!» urlato a Kleiber al vostro «Otello»...
«Prima dell’attacco del terzo atto, un momento difficile (lo canta, poi ride, ndr). Non sa il seguito, però. Carlos alla fine mi disse: è stata una grande soddisfazione, grazie a quel grido il pubblico non si è accorto che lì le viole non erano tanto insieme...».
Quando parla della Scala le si illuminano gli occhi.
«È un teatro particolare. I grandi cantanti e prima ancora i compositori, i creatori, che sono passati di lì il senti, sono nell’aria, intorno a te».
Risponda d’impulso: dovesse scegliere la serata della vita, una sola, quale sarebbe?
«L’ho già citata: 7 dicembre 1976, prima della Scala con Otello, Kleiber, Zeffirelli, Freni, Cappuccilli. E la prima diretta televisiva di un’opera, Verdi che entra nelle case di tutti. Magnifico».
La domanda è sgradevole ma obbligata: non pensa mai di ritirarsi?
«Ogni tanto penso di lasciare il palcoscenico. Non per una fatica fisica, ma mentale. Le opere del mio nuovo repertorio baritonale devo ristudiarle ogni volta che le canto. E allora mi viene l’idea di fare meno recite e più concerti. Sicuramente voglio dirigere di più. Ma i miei genitori erano cantanti e io in teatro ci sono nato. È la mia casa, la mia vita».