La Stampa, 29 luglio 2019
Quanto incassa lo Stato dalle spiagge
Il nuovo Eldorado dei balneatori si chiama Sicilia. In una regione in cui appena il 22% delle spiagge sabbiose è occupato da stabilimenti, campeggi e complessi turistici e non esiste un limite al numero di concessioni, gli imprenditori preparano una presa della battigia. Lo dicono i numeri: sono 600 le richieste di nuove assegnazioni o di adeguamenti, cifra che determinerebbe il raddoppio delle attività esistenti in un territorio poco sfruttato, ma ad elevato potenziale: l’isola conta 425 chilometri di spiagge, alle spalle di Calabria (614 km) e Sardegna (595). La ragione di questo boom improvviso sono le nuove linee guida per il rilascio delle concessioni, al momento sotto la lente della Corte costituzionale dopo che il governo ha impugnato la legge regionale del 22 febbraio 2019: norme che allentano i vincoli consentendo una riduzione dal 100 a 25 metri della distanza tra le concessioni e un aumento consistente dello spazio concesso agli stabilimenti, che potranno passare da 3.000 a 5.000 metri.
Discoteche sul bagnasciuga
La trasformazione delle spiagge italiane, proprietà inalienabile dello Stato, in luoghi dedicati a divertimento e ristorazione gestiti da privati appare irreversibile e in alcuni casi, denunciano gli ambientalisti, senza controllo. Oggi le concessioni demaniali marittime sono 52.619: di queste, 11.104 per stabilimenti balneari e 1.231 per campeggi, circoli e resort, che rappresentano il 42% di occupazione delle spiagge. «I dati sono molto diversi tra nord e sud, ma la tendenza è univoca: aumentano ovunque le spiagge in concessione, e laddove non avviene è perché non ci sono più spiagge libere, come in Versilia e Romagna, e in alcuni tratti della Liguria», avverte Legambiente nel suo rapporto Spiagge 2019, che La Stampa ha letto in anteprima. «Siamo di fatto l’unico Paese europeo che non pone un limite alle spiagge in concessione, lasciando alle Regioni queste scelte». Ma la situazione è sfuggita di mano, se a Forte dei Marmi, Rimini, Alassio, San Benedetto del Tronto, a Mondello, «un cittadino dopo aver fatto il bagno può solo andare a sdraiarsi sul marciapiede a prendere il sole o andare in un tratto di costa vietato alla balneazione».
Una giungla di dati e regole diverse, ma una certezza. L’attività balneare è molto redditizia a fronte di canoni spesso ridicoli, al netto degli investimenti degli imprenditori. A marzo fu Flavio Briatore, patron del Billionaire in Sardegna e del Twiga a Marina di Pietrasanta (Lucca) ad ammettere che le tariffe sono inadeguate e dovrebbero essere «almeno triplicate». Con un fatturato di 4 milioni di euro, infatti, il Twiga paga 17.619 euro l’anno: incassa cioè 227 volte l’affitto. Nell’esclusivo beach club si può arrivare a spendere fino a 1000 euro per 2 letti marocchini, tavolo, 4 lettini, musica e tv su richiesta. E non è l’unica struttura che ha fatto del mare un lusso: all’Hotel Romazzino a Porto Cervo (Sassari) si pagano 400 euro per un ombrellone, due lettini e l’uso dei servizi, 300 euro all’Eco del Mare a Lerici (Sp) per cabina privata deluxe, ombrellone più lettino e altri annessi. Così negli stabilimenti d’élite. I costi in media sono più abbordarbili: secondo stime Adoc quest’anno il prezzo medio a persona per una giornata al mare è di 26 euro per sdraio e lettini, in aumento rispetto al 2018, con un abbonamento mensile di 697 euro in agosto e 1.718 per uno stagionale contro i 1.368 dello scorso anno. Una cifra comunque molto elevata per una famiglia a reddito medio-basso che dovrà quindi ripiegare su una spiaggia libera. Ammesso che ci sia. E Lo Stato che benefici ha? Pochi. Incassa per il demanio marittimo solo le briciole: 103 milioni l’anno nel 2016 (ultimi dati disponibili) per un giro d’affari stimato da Nomisma in 15 miliardi di euro l’anno: 6.106 euro a chilometro quadrato, 4 mila euro l’anno di media a stabilimento.
Oggi la percentuale di spiagge libere e balneabili si è ridotta al 40%. In Liguria ed Emilia Romagna quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti, in Campania il 67,7%, nelle Marche il 61,8%. Dimenticate le dune che ondeggiavano la costa su cui si giocava da bambini, le lunghe spiagge incontaminate bordate dall’ombra delle pinete, i picnic con la borsa frigo trasportata a fatica sulla sabbia sotto il sole a picco.
Interessi e potere in gioco
I cambiamenti radicali delle abitudini e l’attivismo degli imprenditori stanno trasformando radicalmente il paesaggio dei nostri litorali. Un affare che, in alcuni casi, sostiene Legambiente, sconfina nell’illegalità, «come a Ostia, o a Pozzuoli, dove muri e barriere impediscono di vedere e di accedere al mare, o di dune sbancate nel Salento per realizzare parcheggi e tirare su stabilimenti». Il problema di Ostia «non sono i clan, ma l’atteggiamento dei balneari, e i pezzi di amministrazione che negli anni hanno agito nell’interesse degli imprenditori, o non hanno voluto mettersi in contrasto con loro perché dal mare deriva potere - accusa Agostino Biondo, del comitato Mare per tutti di Ostia - L’anno scorso siamo riusciti a ottenere il rispetto dell’ordinanza che prevede i controlli, ma su 75 verifiche in 57 stabilimenti ci sono stati zero rilievi. Abbiamo presentato una querela alla procura contro l’amministrazione». Con le costruzioni che per chilometri impediscono la vista del mare (cabine, ristoranti, recinzioni fuori legge e edifici fuori misura) Ostia è un caso emblematico: «Su sette km, le spiagge libere sono pochissime, quasi tutte inagibili», spiega Biondo. L’abbattimento, a partire dal 2018, degli 8 chioschi a cui erano state ritirate le convenzioni dopo il no dell’Anac al bando si è rivelato un boomrang : «Ha lasciare sporche e senza servizi le spiagge libere su cui le strutture sorgevano, costringendo le persone ad andare negli stabilimenti». Le battaglie per garantire il diritto di accesso al mare ha prodotto miglioramenti, ma i disagi restano: «A Ostia i corridoi previsti dal piano urbanistico non esistono, se si esclude un varco creato dalla Capitaneria». Quindi «per arrivare alla battigia bisogna passare attraverso gli stabilimenti», dice Biondo.«Siamo riusciti a ottenere l’apertura di quelli centrali durante il giorno, ma se non sai che hai il diritto di passare liberamente per raggiungere la battigia, c’è chi ti chiede i soldi per entrare e chi ti caccia». Restano insanati, poi gli abusi che si sono cristallizzati negli anni, con «stabilimenti che dove hanno trovato spazio si sono spinti in avanti o lateralmente invadendo spiagge libere o concessioni abbandonate», in un puzzle difficile da ricomporre: «Con un accesso agli atti abbiamo richiesto le planimetrie alla data delle concessioni: tranne che in un caso, ci hanno dato quelle di 10 anni dopo, in cui risultano sanate le opere realizzate».
La mancata riqualificazione
Il problema, rileva Legambiente, è che in alcuni Comuni si arriva al 90% di spiagge occupate da concessioni, e in alcune aree «il continuum di stabilimenti assume forme incredibili, come in Versilia, dove sono presenti 683 stabilimenti sui 1.291 dell’intera regione». Non è un caso isolato: in Romagna, tra Cattolica e Cervia si snodano 906 stabilimenti sui 1.209 totali (il 74,9%): qui lungo 51,5 chilometri di costa è libero solo l’8,9%, compresi tratti non balneabili. A Fregene, altra spiaggia di Roma, gli stabilimenti si susseguono per 4,6 km «senza soluzione di continuità» anche se il Comune si è impegnato a introdurre varchi ogni 300 metri. Alla progressiva compressione della libertà di accesso si aggiunge un’ ulteriore riduzione: oggi quasi il 10% delle aree costiere sabbiose è vietato alla balneazione per l’inquinamento. In molti Comuni le aree non date in concessione sono vicine a fiumi, fossi, scarichi fognari. Tratti non balneabili: mare "di serie B".
In mancanza di una normativa nazionale, sono le Regioni a fissare le percentuali massime che possono essere date in concessione. Ma poche, rileva Legambiente, «sono intervenute con leggi a tutela della libera fruizione». In cinque regioni (Friuli, Veneto, Basilicata, Toscana, Sicilia) non esiste limitazione, come se tutte le spiagge fossero virtualmente «sul mercato». In realtà, anche laddove le regole e i paletti esistono, spesso non vengono rispettati. In Puglia ci sono comuni, come Monopoli, per esempio, che hanno deliberato di non allineare le concessioni alle indicazioni regionali. In Liguria la legge non viene applicata perché non prevede sanzioni. Chiosa Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «Nessuno nel nostro Paese si occupa di coste, perciò occorre approvare una legge nazionale in materia di aree costiere, premiare la qualità dell’offerta nelle spiagge in concessione e prevedere canoni adeguati, utilizzando le risorse per la riqualificazione dell’ambiente costiero.