il Giornale, 29 luglio 2019
Le estati di Ugo La Malfa
Vacanze allegre? «Beh, insomma. Una volta mi portò a vedere un morto». Certo, non sono cose che si dimenticano. «Infatti, è passato mezzo secolo ma lo ricordo come se fosse successo ieri». Era arrivata una telefonata da Roma e il papà, in genere un tipo solido e di poche parole, riattaccata la cornetta era diventato pallido e aveva cominciato a camminare nervosamente per la stanza da pranzo, mentre tutti gli altri lo guardavano in silenzio in attesa di un cenno, senza il coraggio di chiedere nulla, quasi senza nemmeno respirare. Poi, al ventesimo giro attorno al tavolo, la decisione. «Devo andare. Anzi – disse – Giorgio, vieni anche tu». Padre e figlio saltarono in macchina, una piccola e scassata Lancia, lasciarono la Val Pusteria, valicarono passi, attraversarono campagne e qualche ora dopo entrarono una casa modesta di Borgo Valsugana. «E così per la prima volta, vidi un cadavere». Era il 13 agosto 1954 e la salma da visitare era davvero illustre, quella di Alcide De Gasperi. «La stanza era piena di gente – ricorda Giorgio La Malfa – ma nessuno parlava. C’era un’atmosfera sacrale. Tutto il paese era fermo, sospeso, incredulo». Le spoglie del defunto leader democristiano, padre della Patria, per tante volte presidente del Consiglio, erano distese su un semplice lettino, vegliate da amici, familiari, curiosi, contadini tirolesi, politici locali affranti. «Una scena forte, quasi surreale. Avevo 14 o 15 anni e rimasi molto colpito dalla liturgia».
Vacanze tranquille? «Nemmeno. L’anno successivo vennero a trovarci Leo Valiani e la moglie. Dopo due o giorni, fatti di camminate, discussioni politiche e partite a carte, partimmo per la Germania». Equipaggio al completo. I due Valiani e l’intera famiglia La Malfa – il papà Ugo, la mamma Orsola, i figli Giorgio e Luisa – più i bagagli: tutti dentro una Fiat 1100. Un viaggio epico. Sei persone strette come sardine, ore e ore in automobile, su e giù per strade di montagna: all’epoca non c’erano le autostrade e nemmeno tanti benzinai. «Dopo ogni salita, dopo ogni passo alpino – ricorda Giorgio La Malfa – dovevano fermarci. Una volta la 1100 perdeva olio, un’altra volta bolliva l’acqua del radiatore, un’altra ancora si sgonfiava una gomma». In qualche maniera arrivarono a Monaco e la trovarono ancora distrutta. «A dieci anni dalla fine della guerra, mio padre e Valiani volevano vedere le condizioni della Germania per capire se gli sforzi che avevano fatto, la lotta al fascismo, la Resistenza, la ricostruzione, avevano avuto un senso. Per loro era un chiodo fisso: anche ad agosto, parlavano sempre di questo. Avevano sperato in un’Italia e un’Europa diversa, più avanti, e invece vedevano con tristezza che soprattutto il nostro Paese era ancora arretrato».
Vacanze brillanti? Macché. Le sgambate in quota, il pranzo al sacco, lo scopone scientifico serale con gli amici e i parenti. Se andava bene, tutti in seggiovia al rifugio di Col Rodella a mangiare canederli e casunziei e a guardare la Marmolada da vicino. Non erano villeggiature smart, ma l’Italia era quella modesta degli anni Cinquanta. Ugo La Malfa era un siciliano che non amava il mare. E non amava nemmeno la Sicilia. «Quando ci andava scappava via subito, non vedeva prospettive. Un anno – racconta il figlio – il governo lo mandò in Russia per definire l’applicazione di qualche accordo del Dopoguerra. Quando tornò ci disse che l’Unione Sovietica non aveva futuro, che non sarebbe durata come grande potenza. Aveva sentito, spiegò, lo stesso odore della nostra terra. La puzza della fame». Amava però la montagna «perché sulle Alpi si sentiva più vicino all’Europa». E così per le ferie si ritagliava dieci-quindici giorni in Alto Adige. Val Gardena, Val Pusteria, Val Badia, si cambiava sempre. In linea con il suo personaggio e con l’austerità che predicava, prendeva in affitto case economiche dalla gente del luogo.
Altri tempi. Non esisteva la tv, il telefono funzionava a singhiozzo, così l’unico contatto con il mondo erano i quotidiani, che lo storico segretario repubblicano divorava ogni mattina prima delle passeggiate. «Giornali, panini e via, si partiva in gita. Però mio padre non staccava quasi mai, le camminate gli servivano per pensare e preparare discorsi e interventi. In quei momenti guai a disturbarlo».
Ma la sua passione, oltre la politica, era lo scopone scientifico, e in villeggiatura aveva tempo per sfogarsi. Vinceva spesso. «Un estate – ricorda Giorgio La Malfa – usò le carte per una delicata operazione diplomatica, stabilire dei rapporti con alti ufficiali di sicura tenuta democratica. Eravamo all’inizio degli anni Sessanta, in quel periodo imperversava il generale Giovanni De Lorenzo, capo del Sifar e dei carabinieri, in odore di colpo di Stato, lui allora pensò a un abboccamento con il suo grande rivale, il generale Giuseppe Aloia, ex partigiano e capo di Stato Maggiore dell’esercito».
Cosa meglio di un tavolo da scopone per far nascere un’amicizia? Ugo La Malfa, come segno di grande rispetto, gli chiese di essere il suo compagno contro il figlio Giorgio e un quarto giocatore notoriamente incapace. L’idea era di vincere facile per far colpo su Aloja. Non andò così. «Il generale era davvero scarso. Ad ogni mano commetteva un errore, giocando sempre la carta sbagliata. Noi accumulavamo punti mentre in mio padre montava l’insofferenza, poi il fastidio, fino alla rabbia. Ma perché il due, si lamentava, ma perché non mi segue, ma perché non sta attento Faticava a trattenersi, a mantenere un contegno decente». Alla fine Ugo La Malfa esplose. «Generale, che cavolo sta facendo? Ma come pensa di fare la guerra se non capisce un acca di strategia?». E per colpa di un quattro di bastoni il corteggiamento alle forze armate «democratiche» andò a farsi benedire.
Ogni tanto lassù in montagna andavano a trovarlo degli amici. Uno dei più assidui era Adolfo Tino, avvocato milanese di origine avellinese, presidente di Mediobanca, che aveva fondato con lui, Ferruccio Parri e Valiani il Partito d’Azione e che era lo zio di Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale durante il settennato di Sandro Pertini e poi più volte ministro. «i parlava sempre dei problemi dell’Italia e del mondo – racconta Giorgio La Malfa, pure lui a lungo segretario del Pri ventidue anni dopo il padre – La mia passione politica laico mazziniana è iniziata allora».
Pane e politica, questo infatti mangiava fin da piccolo, quando negli anni Cinquanta abitavano a Roma nel Palazzo Italia, l’edificio in cemento armato costruito da una cooperativa di parlamentari lungo la Cristoforo Colombo, una zona all’epoca deserta e ora quasi centrale. All’ottavo piano viveva Parri, Pertini era al sesto, il dirimpettaio di pianerottolo si chiamava Pietro Nenni, sui campanelli della stessa scala si leggevano i nomi di Giolitti e Amendola. A Ugo La Malfa quella casa però non piaceva e, visto che le Dolomiti erano lontane 700 chilometri, quando poteva saliva sulla Topolino e andava a camminare all’Aventino, di fronte al Circo Massimo e al palazzo degli imperatori. In una piazza che oggi si chiama come lui.