Corriere della Sera, 29 luglio 2019
Vent’anni di Mohammed VI in Marocco
Com’è grasso: è malato? Com’è solo: è separato? Com’è schivo: è spaventato? Sono vent’anni che le chiacchiere circondano Mohammed VI, ventitreesimo sharif della dinastia alawide che si vanta di discendere da Maometto, terzo re del Marocco indipendente, ultimo sovrano di quella parte d’Africa che a dispetto delle primavere arabe, dell’autunno dei patriarchi mediorientali e pure del crepuscolo del Maghreb (che mica per nulla significa luogo del tramonto), continua a risplendere come un sole senza eclissi: domani, in una Rabat imbandierata, Sua Maestà M6 celebra il ventennio d’un regno quasi asiatico per voglia di modernità, quasi scandinavo per discrezione, quasi europeo per stabilità.
E festeggia senza rilasciare un’intervista perché, al contrario del padre Hassan II, il «Capo dei Credenti» detesta la visibilità e posta su Facebook solo qualche selfie in Ray-ban e t-shirt. Mostrando al mondo l’apparente beï’a del suo popolo, una fedeltà prossima alla devozione che ancora esige il baciamano dei suoi 35 milioni di sudditi. «Vent’anni fa, noi marocchini cambiavamo era e aria – dice lo scrittore Fouad Laroui —, e gli uccelli del malaugurio già s’abbattevano su di noi: sarà l’inferno, ecco l’ultimo pascià… Vent’anni dopo non saremo nel paradiso terrestre, ma certo non siamo diventati la Libia».
Il re è vivissimo, viva il re. Non è solo certa stampa marocchina e un po’ lecchina, a inneggiare. A 55 anni, siede sul trono d’un Paese forse più liberale che democratico, di sicuro più avanti: con un Pil triplicato senza gas né petrolio, il Marocco ha una disoccupazione giovanile e urbana vicina al 45%, ma è secondo solo al Sudafrica per investimenti nel Continente nero. E nel ventennio di M6 ha fatto il balzo nel terzo millennio: 20 milioni di telefonini, autostrade, stazioni ferroviarie e il nuovo aeroporto di Marrakech, il ponte M6 costruito dai cinesi, i megaporti di Nador e Tangeri (il più grande del Mediterraneo), le gigantesche centrali d’energia solare ed eolica, la delocalizzazione di Peugeot e Renault, il turismo detassato di milioni di pensionati francesi… E infine la prima alta velocità africana inaugurata in dicembre assieme a Macron, il «cavallo alato» (Al Boraq, nome scelto dal re) che dimezza i tempi fra Casablanca e Tangeri. Le riforme politiche hanno accompagnato il progresso: il codice di famiglia medievale, che Hassan considerava un caposaldo della società marocchina; la capacità di portare al governo i Fratelli musulmani del Pjd, il partito di maggioranza, contrastandone (per ora) l’ambigua lealtà al Makhzen, la monarchia; il pugno di ferro col terrorismo e l’invenzione d’un Islam alla marocchina, in una scuola apposita per imam moderati…
L’hanno chiamato il re dei poveri, per il discorso solidale che fece il giorno dell’insediamento: in Marocco, negli ultimi sei anni sono stati regolarizzati 50mila immigrati africani. Poi diventò il re della pace, perché non riuscì mai a chiudere l’eterna guerra del Sahara occidentale, ma fece rientrare gli oppositori esiliati da papà e amnistiò gli anni di piombo.
Oggi lo soprannominano il «re assente», per via dei lunghi soggiorni invernali nel suo castello francese, per l’intervento al cuore che l’ha tenuto nascosto, per il burrascoso e ormai finito matrimonio con la rossa Lalla Salma. «Hassan II è stato il re del Marocco dappertutto e sempre – ha ironizzato un sociologo di Rabat, Mohamed Tozy —, M6 è un re nelle ore di lavoro». Un impegno part-time che dipende anche da quel che c’è da fare: quando è venuto in visita il genero di Trump, Jared Kushner, l’ha ricevuto assieme al principe ereditario. E il pranzo, zuppe e piccione farcito, è stato più breve del solito. Così dicono le chiacchiere, almeno.