il Giornale, 28 luglio 2019
Biografia di Ercole Baldini raccontata da lui stesso
Ercole Baldini non faceva mai differenza fra i trofei. Potevano essere coppe, potevano essere uomini sconfitti. Forse anche per questo, una volta che li ebbe conquistati e battuti tutti, si fermò e disse: «Sapete cosa c’è? Vado a fare altro». Solo che prima di fare altro, Ercole accompagnò alla pensione il più grande: Fausto Coppi. E lo fece in modo tutto suo. Combattendolo e aiutandolo.
In sette anni lei vinse tutto, compreso il triplete: unico capace di conquistare un grande Giro, un campionato del mondo e una medaglia d’oro alle olimpiadi....
«In tre anni. Furono tre stagioni pazzesche. Dal ’56 al ’58. Vinsi anche un Grand prix des Nations (all’epoca il mondiale a cronometro), un campionato del mondo su pista e uno su strada, e feci il record dell’ora».
In una tappa del Giro mandò fuori tempo limite 60 ciclisti. Però ha poi lasciato nel fiore degli anni...
«Ne avevo trenta. Sono stato costretto a ragionare così. Perché vincevo meno e avevo delle opportunità fuori. Però mi resta un cruccio: di aver mancato nei confronti di una persona cara, il Commendator Borghi. Il patron della Ignis. Andai a correre per la sua squadra nel ’59, per lui ero come un figlio, pensi che mi aveva pagato in anticipo le stagioni di contratto, e io... io non fui in grado di ricambiare tutta la sua fiducia».
E cosa successe poi?
«Accadde che dopo un’altra manciata di anni con solo qualche vittoria di tappa, anche al Tour, dopo un secondo posto alla coppa Baracchi decisi di smettere. E lui mi propose di andare a lavorare alla Ignis».
Non proprio una punizione.
«Tutt’altro. Mi voleva affidare la filiale di Bologna e fece di tutto per convincermi. Quando stavo per accettare morì mio suocero che lavorava all’Iris, un’azienda in espansione nel settore della ceramica qui della zona. Il factotum era ed è il cugino di mia moglie, Romano Minozzi. Andai da lui».
I grandi del tempo come presero il suo arrivo sul palcoscenico del professionismo?
«Gino Bartali bene, si era ormai ritirato. Per lui ero il successore. Mi passò idealmente il testimone. Siamo stati grandi amici fino alla sua morte. Amici proprio di famiglia. Pensi che anche con noi ha sempre mantenuto massima riservatezza su tutto il bene fatto durante la Seconda Guerra Mondiale per salvare gli ebrei dai campi».
E Fausto Coppi?
«Lui mi accolse in modo differente. Intanto era ancora un atleta e aveva un carattere diverso da Gino. E poi c’era con lui una persona che anziché aiutarlo, spesso lo metteva in difficoltà».
Non sembra un gran rapporto il vostro. Eppure lei aiutò il Campionissimo ad ottenere la sua ultima vittoria. Eravate in coppia al Trofeo Baracchi del 1957.
«Certo, e poi le dirò della corsa. Intanto le dico che il passaggio del testimone tra Fausto e me fu una vicenda triste. Noi saremmo anche riusciti ad avere un buon rapporto, ma fra noi c’era lei».
Lei la seconda moglie.
«Sì, lei la dama bianca (Giulia Occhini, fu una relazione che scandalizzò l’Italia del tempo, ndr). Avrebbe dovuto proteggerlo, aiutarlo, sostenerlo dicendogli tu sei cento volte più grande di Baldini, Fausto tu hai vinto tutto, tu sei già nella storia, per l’Italia sei un mito inarrivabile, Ercole invece è giovane, è normale che riesca a batterti. Non fece nulla di tutto ciò, anzi, non perdeva occasione per caricarlo contro».
Quindi questa freddezza nei rapporti fra lei e Coppi...
«Freddezza? No, no, guardi che fin dall’inizio fu proprio guerra. Ma l’aveva dichiarata lui e ogni volta trovava modi per combatterla. Anche se resto convinto che, senza di lei, tutto fra noi sarebbe stato diverso. Il primo segnale del clima che si sarebbe creato fu a Lugano, per la cronometro, nel 1957, stavo pranzando con la mia fidanzata e futura moglie prima della corsa, quando entra Coppi con la dama bianca. C’è un po’ di trambusto, lei passa accanto al nostro tavolo e fa così alla mia fidanzata, il segno delle corna».
Cose fra donne...
«Macché, Vanda era la prima volta che mi seguiva, non conosceva nessuno, rimase senza parole».
Lei e Coppi nelle corse.
«A Reims, quando vinsi il campionato del mondo dopo una fuga di 250 chilometri, disse a tutti che mi aveva lanciato lui, che era stata una sua mossa. Questo riportarono giornali e radio».
E non era così?
«Mi aveva, sì, lanciato lui. Ma per farmi fuori. Quando mai lanci uno due-cento-cinquanta-chilometri-prima dell’arrivo?» quasi sillaba Baldini.
Come andò?
«Prima della corsa, Alfredo Binda, il ct, ci aveva detto: Voi fate in modo di mettere un italiano in ogni tentativo di fuga e, soprattutto, eseguite ogni indicazione di Coppi, chiaro?. In gara avevamo tutto sotto controllo così, quando all’inizio vidi andare via Louis Bobet, Gastone Nencini e Gerrit Voorting, quasi sorrisi. Capii subito che si trattava di una fughetta, per cui mi limitavo a tenerli sotto controllo ma nulla di più. Sapevo che con facilità li avrei ripresi appena avessi voluto. Fu allora che mi affiancò Fausto e disse Vai, vai anche tu!. Ma come? C’è Nencini con loro gli risposi, vai, vai! ti ho detto, ma ti ripeto che c’è Nencini, siamo a posto, è una cosetta, è inizio gara, che senso ha?. Non ci fu verso. Ricordarti cosa ha detto Binda mi avvertì, per cui se ti dico di andare, vai. Era il capitano, era il ct in gara, andai. Avevano cento metri di vantaggio, ma con la rabbia in corpo che mi ritrovavo li ripresi subito. Quando Nencini mi vide affiancarlo mi domandò ma tu che ci fai qui?, chiedilo a Coppi gli risposi, l’è un bischero commentò lui. Non smisi più di tirare e vinsi dopo una fuga di 250 chilometri, appunto. Poi sentii Coppi raccontare alla stampa della sua strategia per la gara. Ma quale strategia? Seppi da Nino De Filippis che Fausto aveva sbottato dicendo ma guarda questo qui? Lo mando in fuga in anticipo per sfiancarlo e mi va a vincere la corsa...».
Però poi fu con lei che il Campionissimo vinse l’ultima corsa della sua vita.
«Sì, e le racconto il modo. Era il 1957. Io non avevo alcun desiderio di prendere parte al Trofeo Baracchi di quell’anno in coppia con Fausto. Sapevo che per tutti, se avessimo vinto, sarebbe stato merito di Coppi, e se avessimo perso colpa di Baldini. Provai a sottrarmi, non ci riuscii. Il Trofeo Baracchi era la cronometro a coppie più importante e Mino Baracchi voleva a tutti i costi noi due insieme. Fatto sta, partimmo. Mi sentivo in forma, pieno di energia, tiravo e andavamo. Ogni tanto udivo la sua vocina dietro di me, che mi chiedeva di rallentare, di rifiatare un poco».
Coppi le diceva «va più piano»?
«No, lui diceva solo hop hop. Voleva dire va piano. Quando invece restava in silenzio potevo spingere. Fatto sta, ad un certo punto, vicino a Desio, forai. Non feci in tempo a dire bah che mi voltai e lui era sparito, via, andato. Dall’ammiraglia della Legnano mi dicevano dai, su, forza che lo riprendi ma ero in difficoltà. Sistemata la bici, rimontai in sella e lo inseguì. Pensai lo raggiungo e gli do del cretino, invece avevo una tale furia dentro mentre pedalavo in mezzo alla folla che credeva mi avesse distaccato che quando fummo insieme continuai a tirare e, con lui che dopo essersi riposato si era rimesso a spingere, andammo a vincere una corsa incredibile. Ecco come andò l’ultima vittoria di Coppi».
Rapporto particolare il vostro.
«Le ho detto. Per via di come lei lo caricava. Quando ormai Fausto aveva lasciato le corse vere, tutto cambiò. Eravamo a Parigi per una gara minore e passavamo volentieri del tempo assieme. Una mattina andammo ad allenarci e mentre pedalavamo, scherzando e ridendo riferito alla moglie rimasta in hotel, mi disse speriamo non combini guasti stamane... Gli chiesi: In che senso guasti, Fausto? C’era una pellicceria di fronte all’hotel rispose lui. E scoppiammo a ridere».
Lei ha tolto anche il record dell’ora a un fenomeno come Jacques Anquetil, a Milano, nel tripudio da Maracanà del Vigorelli...
«Jacques. Siamo rimasti amici tutta la vita. Pensi che lui poteva correre una crono con una coppa di champagne sulla schiena e arrivare al traguardo senza versarne una goccia».
Anche di lei si diceva che avesse uno stile di pedalata elegantissimo.
«E infatti anche io sarei arrivato al traguardo senza versare una goccia di champagne».
La sua vita poi.
«Due figli, Anselmo, ora ha sessant’anni, e Riziero, cinquantacinque. Mia moglie è scomparsa nel 2009. Le avevo accennato prima di mio suocero. Quando morì accettai di lavorare nell’azienda di famiglia, la Iris. C’è ancor oggi. Ne diventai rappresentante, testimonial, tante cose. Ho poi messo su anche un paio di imprese mie. Pensi che viaggiavo come un matto e sfruttando il Giro o il Tour o la Vuelta organizzavo sistematicamente molti incontri con clienti o potenziali clienti che vivevano vicino alle zone dove passavano le tappe. Così li invitavo ad assistere agli arrivi. Sa quanti contratti ho fatto? Una volta, in Sicilia, mi ordinarono diversi camion di piastrelle, il fatturato di sei mesi, dicendomi solo scelga lei colore e tipo di piastrelle.... Guardi che sono vittorie anche queste».