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 2019  luglio 28 Domenica calendario

Fenomenologia della valigia

All’aeroporto di Londra Heatrow, nello schermo dell’addetto al controllo bagagli che sbadiglia annoiato davanti all’ennesimo trolley che passa sul nastro, a un certo punto compare la sagoma di una moka. 
Fare la valigia è un esercizio filosofico: ci insegna a scegliere, quindi a rinunciare. Ci insegna a premeditare e a meditare. Su noi stessi, sui nostri bisogni (mi servirà davvero quel paio di scarpe?) e sulla nostra idea di viaggio. Partire portandoci dietro gli oggetti della nostra quotidianità o partire per staccare temporaneamente la spina dalla quotidianità? La moka di casa è davvero così indispensabile?
Fare la valigia è già un viaggio: una escursione dentro le proprie manie, tanto che – come scrive Susan Harlan nel suo Fare i bagagli - «a volte è difficile scindere il viaggiatore dal suo bagaglio. A volte diventiamo ciò che portiamo». Se, prima di un viaggio, stiliamo l’elenco dei luoghi da visitare, prima di fare il bagaglio prepariamo la lista delle cose da portare, a mente o per iscritto. Un «rito», secondo Harlan, esattamente come altre abitudini consolidate nel tempo, come quella di «avvolgere alcuni vestiti nella carta velina e altri in buste richiudibili», come fa un’amica della scrittrice. «Anni fa – scrive – pensavo che le ci volessero secoli per fare i bagagli, ma poi ho capito che per certi versi era proprio quello il punto: le piaceva quel procedimento, quella scrupolosità». 
La valigia è lo specchio dell’anima, dunque. Guardandoci dentro è possibile scoprire inquietudini e segreti, che non vengono svelati solo dagli oggetti che si è scelto di mettere nel bagaglio ma anche dal come tali oggetti sono stati inseriti. Perfettamente ripiegati o in disordine, protetti da carta e sacchetti oppure esposti, in eccesso o il minimo indispensabile. «Conosco coppie che condividono la valigia (una grande al posto di due piccole) e altre che non ci pensano neanche», scrive Harlan, avvalorando la tesi che l’addetto al controllo bagagli conosca quello che succede in una coppia più di un bravo terapista. Cosa scoprirebbe di noi se malauguratamente il nostro bagaglio venisse aperto per un’ispezione? 
Succede ogni tanto: l’addetto – senza troppa delicatezza – mette un trolley sul tavolo e con un gesto rapido scoperchia il nostro piccolo mondo sotto gli occhi degli altri viaggiatori, innervositi per il rallentamento della coda. E succede anche quando, davanti al nastro bagagli dell’aeroporto, tiriamo giù una valigia pensando che sia la nostra, e magari ce la portiamo fino a casa prima di scoprire – aprendola – che è di qualcun altro. Per evitare sciagure del genere, «alcuni scelgono di imprimerci un monogramma. Il monogramma è la distillazione testuale della propria identità, una dichiarazione di possesso. Altri ricoprono la valigia di adesivi che rappresentano i luoghi visitati in passato, anche se ormai non è più di moda». I bagagli diventano dunque compagni di viaggio: «Vecchia valigia, come va?», chiede il cantautore Francesco De Gregori alla sua «vecchia valigia ancora buona per una gita»: diamo del tu al nostro bagaglio perché ci fa compagnia nelle lunghe attese in stazione, perché ha condiviso con noi gli imprevisti che spesso succedono a chi sceglie di lasciare il comfort domestico per muoversi verso mete sconosciute. «Viaggi in tutto il mondo, lontano da casa, forse anche dalla famiglia. Non ti resta che affidarti a te stesso. E al tuo bagaglio», spiega il commesso interpretato da Berry McGovern nel film Joe contro il vulcano del 1990, il cui protagonista (Joe, appunto) è interpretato da Tom Hanks. Da mero contenitore di oggetti che ci portiamo dietro perché potrebbero salvarci la vita (dalle medicine al kit di pronto soccorso, fino alla moka), il bagaglio può diventare esso stesso un salvavita: alla fine, di valigie Joe ne acquisterà quattro e gli torneranno molto utili perché le legherà a mo’ di zattera, mettendo di fatto la sua vita nelle mani di quei bagagli.
Affidabilità è quello che i viaggiatori chiedono alla propria valigia fin dai tempi antichi, come racconta Susan Harlan nel suo libro che ripercorre la storia di questo oggetto, dal grand tour degli aristocratici inglesi del 1600 ai primi viaggi su rotaia del 1800, fino al turismo di massa del 1900, che impose regole ferree sui bagagli: «Le prime – scrive Harlan – furono predisposte nel 1938, quando la Civil Aeronautics Board, agenzia che si occupava della disciplina economica del trasporto aereo, stabilì un massimo di 18 chili per i voli nazionali e di 20 per le tratte internazionali». Dai limiti di peso si è gradualmente passati al pagamento per l’imbarco dei bagagli, costringendo molti viaggiatori a sborsare cifre considerevoli per le valigie. Anche per questo, chi può se le porta in cabina, ma per farlo bisogna ridurre al minimo il bagaglio e compiere l’esercizio più difficile: scegliere che cosa ci è indispensabile e che cosa no.