Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019
I conti in tasca a Leonardo
Che rapporto aveva Leonardo con il denaro? Come e quanto ne guadagnò? E come lo gestì? Consultando il mare magnum dei suoi appunti e compulsando contratti, lettere, carte d’archivio e testamenti è possibile – a grandi linee – ricostruire una sorta di “biografia economica” dell’artista.
Leonardo nacque il 15 aprile 1452 nel borgo di Vinci. Era figlio illegittimo di ser Piero, e venne allevato dal nonno Antonio. Morto il nonno, il padre (che si sposò più volte generando ben 12 figli) mise l’illegittimo Leonardo a bottega da Verrocchio per farne un artista. Ser Piero – notaio di ordini religiosi e della Signoria di Firenze – aiutò Leonardo agli esodi della carriera facendogli trovare ingaggi presso le istituzioni per le quali esercitava la professione notarile. Leonardo guadagnò così i suoi primi soldi. Nel 1478 ricevette 25 fiorini dalla Signoria per il cartone della pala della Cappella di San Bernardo a Palazzo Vecchio (mai realizzata e poi affidata a Filippino Lippi) e nel 1481 firmò il contratto per l’Adorazione dei Magi dei Monaci di San Donato a Scopeto (oggi agli Uffizi): il pagamento era previsto parte in denaro (300 fiorini) e parte in natura (un terreno in Valdelsa). L’opera però rimase incompiuta (quindi niente denaro e niente terreno), perché Leonardo si trasferì a Milano con la speranza di un ricco ingaggio presso la corte sforzesca. L’ingaggio però non arrivò subito, e Leonardo dovette ripiegare sull’ennesima pala d’altare, la celebre Vergine delle Rocce (oggi a Parigi), per la quale cercò di ottenere un sovrapprezzo di 100 ducati mentre la Confraternita committente gliene offriva solo 25: da qui si aprì una vertenza legale che si chiuderà solo nel 1506 con la realizzazione di una seconda versione dell’opera (oggi a Londra), mentre la prima Leonardo fu libero di rivederla.
Entrato nelle grazie di Ludovico il Moro, il Vinciano iniziò a fornire consulenze alla corte e alla Fabbrica del Duomo. Ma una nuova voce di guadagno arriva anche dagli allievi, che gli pagano una retta mensile di 4 o 5 ducati a testa. Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì, l’allievo prediletto, spicca tra i conti del maestro non per le cifre che gli versa bensì per quelle (ingenti) che gli fa spendere, soprattutto in capi di vestiario. Sparsi nelle carte si registrano innumerevoli conti di denari, ricordi di pagamenti, ricevute, prestiti e somme da riscuotere. Nel luglio del 1492 Leonardo apre la cassa di casa e conta i liquidi, convertendo tutte le monete presenti (fiorini, soldi, ducati, lire) in 811 lire imperiali.
Nel 1494 Leonardo perde la madre (e annota freddamente le spese per la sepoltura), ma lo stesso anno riceve una notizia ancora più ferale: Ludovico il Moro ha deciso di rinunciare al cavallo di bronzo di Francesco Sforza, progetto che Leonardo ha già portato a buon punto. Perdendo il cavallo, Leonardo perde un ingaggio economico molto importante. Abbozza una lettera al Moro in cui chiede sostanzialmente un altro lavoro. Il duca provvede: gli assegna la decorazione della Sala delle Asse nel Castello e l’Ultima Cena nel Refettorio di Santa Maria delle Grazie.
Come paga il duca questi lavori? Non con soldi ma con terra: gli promette in dono una vigna di 16 pertiche (un ettaro) fuori Porta Vercellina, in una zona pregiatissima, vicino a Santa Maria delle Grazie, già destinata all’espansione edilizia. Questa soluzione, tuttavia, accontenta Leonardo fino a un certo punto: il maestro è consapevole che la fortuna del Moro sta tramontando e che i francesi si stanno muovendo per spodestarlo, considerandolo un usurpatore. Leonardo è in ansia e lo si capisce dalle mosse che compie. Innanzitutto, insiste perché il duca ufficializzi velocemente la donazione della vigna con tanto di licenze edilizia e di coltivazione. In secondo luogo, fa calcolare il valore monetario della proprietà (che ammonta a 1400 ducati); infine, mette al sicuro il denaro contante: nell’aprile del 1499 – chiuse le pendenze con gli allievi – fa di nuovo il conto generale dei soldi che si trovano in casa, ducati, grossoni, fiorini, ambrosini, per un totale di 1280 lire imperiali. Poi, divide e avvolge le monete in diversi involucri di stoffa. E fa una cosa buffa: li colloca in luoghi in vista, su mensole e nei barattoli dei chiodi. Nella cassaforte (primo bersaglio di eventuali ladri) lascia solo 140 ambrosini avvolti in un pannicello.
Nell’agosto del 1499 Milano viene invasa dai francesi e il Moro fugge. Leonardo annota: «Il duca ha perso la roba, lo Stato e la libertà, e nulla si finì per lui». E il 14 dicembre trasferisce i suoi soldi a Firenze, facendosi accreditare nell’Ospedale di Santa Maria Nuova l’ingente somma di 600 fiorini. Poi lascia Milano. Va a Mantova, a Venezia, nelle Romagne e a Roma in cerca di lavoro e di un nuovo mecenate al quale legarsi. Le prospettive però sono così incerte che il raziocinante Leonardo spende nel 1502 sei soldi «per dire la ventura», cioè per farsi predire il futuro dall’astrologo.
In questo periodo il maestro vive sostanzialmente attigendo dal conto di Santa Maria Nuova, finché nel 1504 la Signoria fiorentina non gli commissiona la Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio: previsti 15 fiorini al mese per fare il cartone che deve essere finito nel febbraio 1505.
Nel luglio 1504 muore il padre ser Piero ma i fratellastri escludono Leonardo dall’eredità: il Vinciano non reagisce. Intanto, il lavoro della Battaglia di Anghiari non prosegue e si comincia a mormorare che Leonardo abbia «giuntato» (truffato) la Repubblica: il maestro – sdegnato – raduna i soldi ricevuti in questi due anni e fa il bel gesto di restituirli (ma non li rende).
Per levarsi dall’impasse pensa di ritornare a Milano. I francesi lo stimano, il loro plenipotenziario Gian Giacomo Trivulzio ha messo sul piatto 4000 ducati per un nuovo monumento equestre (Leonardo fa un preventivo al ribasso, bastano 3000 ducati). Poi, c’è da chiudere la vertenza della Vergine delle Rocce, e soprattutto da riscattare la vigna di Porta Vercellina che i francesi gli avevano sequestrato appena arrivati a Milano.
Il 30 maggio 1505 Leonardo chiede il permesso alla Signoria di Firenze di allontanarsi per tre mesi: permesso accordato, ma se non torna pagherà una penale di 150 fiorini. Leonardo parte e viene accolto dal nuovo governatore di Milano, Charles d’Amboise. Il progetto è di aspettare l’arrivo in città del re Luigi XII di Francia e di mettersi al suo servizio. Firenze può aspettare. Invece, nel 1507, giunge la notizia che è morto lo zio Francesco, fratello del padre. Lo zio ha lasciato in eredità a Leonardo un podere a Fiesole, ma i fratellastri impugnano il testamento: stavolta il Vinciano reagisce con veemenza, chiede aiuto al re di Francia e al cardinale Ippolito d’Este per avere giustizia presso il tribunale della Signoria, dove è istruita la causa. Davanti alle conoscenze altolocate di Leonardo, i fratellastri capitolano: il podere di Fiesole andrà all’«illegittimo».
Nel 1508 torna a Milano. Re Luigi XII lo onora del titolo di «pittore reale» e lo gratifica con denaro (390 scudi e 200 franchi in due anni) e con una rendita tratta dai diritti di erogazione delle acque del Naviglio. Colpo di scena: il 29 dicembre 1512 i francesi vengono cacciati da Milano dalle truppe imperiali. Per il maestro di Vinci significa la fine della sicurezza economica. Ma Leonardo non sembra preoccuparsi: ha accumulato notevoli liquidi nell’Ospedale di Santa Maria Nuova, bastanti ad affrontare una tranquilla vecchiaia (ora ha 60 anni). E poi c’è la vigna affittata, anche se a gestirla direttamente è il poco raccomandabile Salaì.
Ma il destino ha un piano diverso. Nel 1513 Giuliano de’ Medici, fratello di papa Leone X, lo chiama a Roma al suo servizio. Da Milano Leonardo parte per la capitale della Cristianità (con sosta a Firenze per versare 300 scudi sul conto di Santa Maria Nuova). Due anni dopo, però, Giuliano de’ Medici è già morto. Il nuovo re di Francia Francesco I gli offre la sua ultima possibilità: una bella casa e una bella pensione in Francia. Il maestro accetta. La casa è il piccolo castello di Clos Lucé, la pensione è di 1000 scudi all’anno. Niente male. Ma il grande vecchio è giunto al capolinea. Il 23 aprile 1519 fa testamento e il 2 maggio muore. Leonardo lascia a Francesco Melzi (il segretario di fiducia che lo ha seguito da Milano) tutti i suoi scritti e i suoi disegni, i suoi abiti e i soldi che sono in casa. Al prediletto Salaì (che però non lo ha seguito in Francia) lascia metà della vigna di Milano (l’altra metà la lascia al servitore Batista de Vilanis, assieme alla rendita delle acque del Naviglio). Leonardo sarà generoso persino con i fratellastri: lascia loro il podere di Fiesole e i soldi sul conto di Firenze, 400 ducati. Appresa la notizia della dipartita, i parenti si fiondano sul conto fiorentino e lo prosciugano in pochi giorni. Trovano però una amara sorpresa: a disposizione ci sono solo 300 ducati e non 400 come dice il testamento. Una vendetta postuma di Leonardo? Chissà.