Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019
Il macigno della denatalità
Avviene assai raramente che uno studioso, di provato e riconosciuto valore, riesca a condensare in una breve ricostruzione divulgativa tutte le cause e le implicazioni del problema di cui principalmente si occupa, come ha fatto in Italiani poca gente Antonio Golini, con la collaborazione di Marco Valerio Lo Prete. Si tratta della “denatalità”, il problema dei problemi, che già segna profondamente la nostra vita sociale, economica e politica, investendo quasi tutta l’Europa, e raggiungendo in Italia, tra la disattenzione di tutti, un livello di estrema gravità. Siamo diventati, dopo il Giappone, il Paese più vecchio del mondo. Nel 2017 i nati sono stati 485mila e il saldo negativo con i morti è stato di 190 mila. La caduta delle nascite ha raggiunto il livello più basso e i dati recenti del 2018 sono peggiori. Questo capovolgimento è iniziato nel 1995, per crescere sempre più vorticosamente. Nel 2000 sono entrati in questa stessa spirale la Germania, la Grecia, il Portogallo e la Spagna, con numeri, almeno per ora, più contenuti. Fino alla data del 1995 la popolazione italiana era continuata a crescere per l’elevamento delle aspettative di vita, ma il tasso di fecondità era già declinato, ora è divenuto il più basso del mondo. La demografia studia, a livello internazionale, l’Italia, come il caso più esemplare.
Se si valuta la popolazione per fasce d’età, come è necessario fare, al primo gennaio del 2018 in Italia c’erano 168,7 anziani, ogni 100 giovani, e, a questi ritmi, si prevede che fra 20 anni saranno 265. Tra il 1926 e il 2017 la popolazione sotto i 25 anni è passata dal 49% al 25. Ma soprattutto siamo caduti in quella che viene denominata la “trappola demografica” della denatalità, determinata da una sensibile diminuzione di donne in età feconda, a seguito della quale, secondo un collaudato rapporto statistico, la caduta della natalità diviene una spirale sempre più vorticosa, da cui è molto difficile uscire.
Il tasso di fecondità è sceso dall’1,48 del 2008 all’ 1, 32 del 2017, e quest’ultimo dato comprende anche la natalità delle donne straniere, immigrate in Italia, che su 458 mila nati contribuisce complessivamente con 99 mila (sia calcolando la sola madre, sia entrambi i genitori).
Questa caduta delle nascite va confrontata con la crescita mondiale della popolazione: nel 2017 questa è salita a 7 miliardi e 755 milioni, nel 2050 dovrebbe arrivare 9 miliardi e 770 milioni, nel 2100 a 11 miliardi e 184 mila. È una crescita che tende lentamente a rallentare, ma con delle differenze di ordine geopolitico che sono ben illustrate nel libro. Tendono a scendere verso zero tutti i Paesi a sviluppo avanzato, incominciano a rallentare quelli che si trovano a metà strada, continuano a crescere vorticosamente le aree del pianeta più arretrate. È il caso dell’Africa, la cui popolazione tra il 2017 e il 2100 si prevede aumenti più di tre volte, partendo da 1 miliardo e 256 milioni. È sufficiente analizzare il caso della Nigeria che nel 2050 dovrebbe oltrepassare i 400 milioni di abitanti, con una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti, di contro a un’Europa che tende a perderne circa 70 milioni. La crescita della popolazione dall’inizio del secolo XIX, partendo da un complessivo miliardo di abitanti, è stata sempre più intensa. A ciò l’umanità ha saputo dare la giusta risposta, superando le preoccupazioni malthusiane della vigilia.
Grazie ai progressi scientifici e tecnici che hanno accompagnato la rivoluzione industriale, partendo dal XVI secolo, può calcolarsi che la popolazione è cresciuta di 14 volte, la produzione di 240 volte, il consumo di energia di 150 volte. Le aspettative e le condizioni di vita sono profondamente mutate, con esse le abitudini e il costume. Con la seconda metà dell’800 siamo dunque entrati in una società del tutto nuova, in cui è stato possibile controllare e risolvere il problema di una “transizione demografica” che comportava una crescita costante della popolazione, tenuto conto che aumentava anche il costo di allevare dei figli e l’emancipazione femminile è stata il punto di arrivo più alto di questi mutamenti sostanziali. Sono anche emersi altri fenomeni che riguardano più in generale inclinazioni nuove di psicologia sociale, specie un accentuato individualismo che separa sempre più l’individuale dal reale, e diventa un crescente ostacolo per un organico sviluppo della vita collettiva, che è stato definito anche come un approdo “narcisistico”.
Ora la domanda che occorre porsi è se le società sviluppate, segnate dalla denatalità, sapranno fare fronte alle conseguenze che essa comporta. Una caduta di natalità ha un impatto profondo sullo sviluppo economico, tanto più in Paesi come l’Italia che hanno già accumulato un enorme debito pubblico. Certamente l’immigrazione rallenta gli effetti della denatalità e si presenta come necessaria ai fini dello sviluppo economico, ma non risolve il problema. Tanto più che l’Italia è tornata a essere un Paese di “emigrazione”: dal 2007 sono 115mila gli italiani che annualmente vanno all’estero e si calcola che 75mila vi rimangono.
Politiche contro la denatalità sono, peraltro, possibili a sostegno dei giovani e delle famiglie. I sondaggi mostrano che la percentuale di chi vorrebbe due figli, e anche più, rimane abbastanza alta, ma si ritiene di non poterlo fare per ragioni economiche. Si tratta di politiche, altrove positivamente sperimentate, relative alla fiscalità, al lavoro, all’istruzione, al welfare. In Italia, al di là di qualche marginale sussidio, non si applicano. Tutta la spesa sociale crescente è per gli over 60. I quali sono sempre più numerosi, anche elettoralmente. Così ciò che diventa dominante non è l’adagio di “prima gli italiani” ma, sempre più e senza rimedio, Italiani poca gente.