Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019
I 200 anni di Herman Melville
Era nato duecento anni fa, il 1° agosto 1819, ma il suo capolavoro, Moby Dick, ne ha fatto un autore del Novecento. Le ragioni per cui non piacque ai contemporanei, che pure consideravano Melville un eccellente scrittore di libri di viaggio, stanno probabilmente nella sua complessa impalcatura metafisica.
E poiché quel che un giorno pare astruso, il giorno seguente risulta illuminante, grazie a quei mutamenti della sensibilità estetica e morale che gli storiografi tedeschi dell’800 hanno definito una volta per tutte come Zeitgeist o “spirito del tempo”; ecco che, dopo un periodo di oblio, Moby Dick fu riproposto negli anni ’20 – cent’anni fa – all’attenzione dei lettori per le sue qualità artistiche.
Il che stava a indicare una apprensione delle cose in sintonia con una sofferta visione agnostica o addirittura gnostica («il mondo è stato creato da una divinità avversa all’uomo») che si andava allora affermando e che la complessità e ambiguità proprie del linguaggio dell’arte moderna parevano confermare.
Deriso da critici e pubblico quando uscì, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, rispettivamente nel 1851 e 1852, Moby Dick è oggi collocato ai vertici della letteratura mondiale. Ma prima che D. H. Lawrence, Carl Van Doren e Lewis Mumford – sono questi i suoi paladini – lo rilanciassero; Melville, che era morto nel 1891, era scaduto a scrittore di secondo piano. Tant’è vero che tutte le sue opere erano ormai fuori stampa dal 1876.
Bisogna però dire che Moby Dick avrebbe ricevuto il plauso di Nathaniel Hawthorne, dalla cui opera Melville aveva peraltro già preso spunto per sostenere entusiasticamente – in un saggio apparso, nel 1850, su “Literary World” – che era giunta l’ora, per gli scrittori americani, di entrare in competizione con Shakespeare e i suoi pari. E in quello stesso anno aveva iniziato la stesura di una temeraria avventura della mente – senza patria e senza confini – alla spasmodica ricerca del significato ultimo delle cose. La ragione dell’esistenza del male.
In una lettera del maggio/giugno 1851 allo stesso Hawthorne, oltre a lamentare la fretta con la quale era costretto a scrivere («i dollari sono la mia dannazione») e oltre a trascurare il fatto che i libri con i quali aveva esordito lo avevano reso celebre – se non ricco – dalla sera alla mattina, Melville aggiungeva: «Ciò che mi sento più spinto a scrivere, quello viene bandito: non rende. Eppure, nell’insieme, non riesco a scrivere nell’altro modo. Così alla fine il risultato è un garbuglio, e tutti i miei libri sono delle rappezzature».
Paventava l’idea di passare ai posteri «come l’uomo che è vissuto tra i cannibali». Il grande successo di un libro di iniziazione alla vita come Redburn («una povera cosa che ho scritto per comprarmi un po’ di tabacco») e il fallimento di Mardi (1849) – un viaggio allegorico, andata-e-ritorno, a un immaginario arcipelago del Pacifico – orientarono la sua mente verso la creazione di un ibrido di inaudita potenza e straordinario vigore poetico. Un libro concepito come un documento sulla baleneria ed esemplato sulle anatomie del ’600, che diventa una sorta di tavola periodica sulla quale sono registrati i vari modi in cui la realtà può essere percepita da occhi e spiriti diversi.
Punto di riferimento per ogni personaggio è la balena, in realtà un capodoglio, la cui insolita bianchezza – ovvero assenza di connotazioni etiche – simboleggia l’inaccettabile indifferenza della natura nei confronti dell’uomo. Al centro, una figura titanica con un nome biblico, Ahab – colui che nel Primo Libro dei Re (21: 26) «commise molti abomini, seguendo gli idoli» –, il quale insegue e persegue ai quattro angoli dell’oceano quella che crede essere la incarnazione del male, per vendicare l’oltraggio subito tempo addietro, quando, aggredito, l’enorme animale aveva reagito staccandogli una gamba. La storia dell’ossessivo inseguimento che finisce in catastrofe, è raccontato in prima persona dall’unico sopravvissuto, Ishmael, che nella Genesi è il figlio ripudiato di Abramo e che in Moby Dick riassume in sé la voce di tutti gli orfani, i diseredati e gli esuli della terra. La condizione creaturale di tutti gli uomini e le donne di questo mondo.
Agli occhi dei modernisti, Moby Dick apparve come un’opera che, al pari della Commedia e dell’Amleto, di Re Lear e dei Fratelli Karamazov, esplorasse lo spazio tra il cielo e la terra, scendendo agli inferi. In un articolo apparso su “The New Republic” (1928), Lewis Mumford contrapponeva infatti più volte la parola “Life” (scritta con la maiuscola) a “merely living”, per indicare le vette a cui l’immaginazione di Melville aveva portato la propria opera rispetto ai pur grandi scrittori della sua epoca – e citava i vittoriani: da Dickens a Thackeray – astretti nella rappresentazione realistica di una quotidianità (mangiare, dormire, arricchirsi, accoppiarsi e morire) che non si chiedeva, né tantomeno rivelava mai, né lo scopo né il significato della umana esistenza.
Il coraggio di cui Melville aveva dato prova rovistando sotto la superficie delle apparenze attrasse l’attenzione di una generazione animata da “passione e compassione” – come si diceva a quei tempi – per la quale che l’opera d’arte fosse formalmente bella era del tutto secondario (e anche difficilmente definibile) rispetto al fatto che fosse espressiva, ovvero penetrante e incisiva, e collocasse ogni cosa sul piano ontologico per delineare in trasparenza – ex pede Herculem – la portata simbolica delle cose visibili.
Dal momento della riscoperta, tutti i libri di Melville – poesie comprese – e non solo Moby Dick, sono diventati oggetto di una riflessione critica sistematica – sottile e talora fin troppo scaltra – che, oltre a imporlo, giustamente, come un classico, lo ha talora indicato come un autore di singolare stravaganza intellettuale. Come se la sua dimestichezza con alcuni autori del Rinascimento oggi ormai poco famigliari – da Robert Burton a John Bunyan e da Thomas Browne (sopra tutti) alla Versione Autorizzata di re Giacomo, che era peraltro solo una delle sei traduzioni delle Scritture che Melville teneva sul tavolo, fosse il risultato di una scelta esoterica invece che parte del normale bagaglio di letture di uno scrittore della sua generazione in America.
Melville non anticipò il modernismo perché nessuno scrittore anticipa mai il futuro – ciò che non c’è –; ma certamente, come succede sempre alle opere di molto spessore, il suo Moby Dick è potuto sembrare profetico perché parla nella lingua eterna delle grandi verità e delle nostre angosciate domande sul valore della nostra esistenza. Il pentagramma in cui il tempo stesso – la storia – implode nell’assoluto e dal silenzio ci si aspetta che una voce ci venga in soccorso.