La Lettura, 28 luglio 2019
Un libro su Fausto Coppi
«Bisognava farli cantare, e farli cantare insieme. Qual era il problema in fondo? Non avevano fatto altro che cantarsele per vent’anni: polemiche e dispetti, litigi e ripicche… Adesso però che i due grandi rivali si rimettevamo insieme, il difficile era far diventare il duello un duetto. Il 10 novembre la notizia, clamorosa, era apparsa sui giornali: Fausto Coppi, che in molti pensavano fosse ormai prossimo ad annunciare il suo ritiro dalle corse, avrebbe gareggiato ancora per una stagione, il 1960, e lo avrebbe fatto nella squadra della San Pellegrino, che da qualche anno aveva come direttore sportivo Gino Bartali… Bisognava fare una bella réclame! Cosa di meglio, allora, che andare in televisione?».
Così inizia uno dei tanti racconti (ma forse sarebbe più giusto chiamarli tableau, quadri nell’accezione teatrale, o sequenze cinematografiche) che compongono un libro straordinario dedicato al Campionissimo: 99 storie e una canzone, 21 disegni di Riccardo Guasco per formare Alfabeto Fausto Coppi di Gino Cervi e Giovanni Battistuzzi (Ediciclo editore).
La letteratura su Coppi è sterminata eppure, come scrive Cervi, «si ha la sensazione che intorno al suo nome e alla sua vicenda terrena continui ad agire un’inesauribile forza evocatrice, che la sua inafferrabile complessità non smetta di generare storie». Del resto, ogni mito vive di racconti, di racconti tratti da altri racconti, dove il significato è inoculato in una sorta di narrazione continua, di incanto che riusciamo a far agire in noi. Il mito resiste al tempo perché è continuamente alimentato dal racconto, si rinnova con mille varianti, con nuove storie, vere o presunte tali non importa, intessute con quelle più antiche.
Fausto Coppi, uomo solo al comando, baciato dalla grazia, morto giovane e caro agli dei. Ma senza Gino Bartali non ci sarebbe stato Coppi, e viceversa. Il campione che divide le folle ha bisogno del deuteragonista, di screzi omerici; si nasce Coppi o si nasce Bartali. Ma tutt’e due sono indispensabili perché l’impresa sportiva diventi ciò che può diventare: letteratura e vita, azzardo e vertigine, giorno e notte.
Il ciclismo, per anni lo sport più popolare, ha fornito all’Italia del dopoguerra una sorta di riscatto della mobilità (nel 1946, di biciclette, ne circolavano 3 milioni di esemplari, contro 149 mila autovetture; l’anno seguente le bici salgono a 3 milioni e mezzo, le auto a 184 mila), un fascio di metafore per la rinascita del Paese («la fuga», «pedalare», «far mangiare la polvere», «tagliare il traguardo»), un’euforia risorgimentale, il riscatto dei nostri connazionali all’estero, la leggenda della sollevazione scongiurata dopo l’attentato a Togliatti, il brivido della Dama Bianca, la donna con cui Coppi fugge.
Parlare di Fausto Coppi o di Gino Bartali non vuol dire misurarsi solo con due ineguagliabili campioni sportivi ma anche con i primi grandi eroi nazional-popolari dell’Italia postbellica, con due fantasmi inseguiti dalla letteratura, dalla stampa scandalistica, dalla radio, dai cinegiornali, da Totò, da Roland Barthes (a lui si deve la più perfetta definizione del Campionissimo: «Eroe perfetto. Sulla bicicletta ha tutte le virtù. Fantasma temibile»), da Paolo Conte, dalla politica, dalla nostalgia, dalla futilità della tv. I due eroi rappresentano un antagonismo rivelatosi come una delle tracce più significative per ricostruire l’identità nazionale.
21 novembre 1959: i due, li avevamo lasciati al Musichiere. Riscritto da Garinei e Giovannini, diretto dall’abile mano di Antonello Falqui, Mario Riva regala al quiz show di matrice americana (Name That Tune), una vitalità strapaesana in cui il pubblico italiano subito si riconosce. Riva, fra un indovinello canoro e la presentazione di un ospite, usava intrecciare dialoghi confidenziali con una immaginaria «Sora Clotilde», vicina di pianerottolo o portinaia o ostessa di un’Italia tutta provole e caciotte. E al grido di battaglia di «nientepopodimenoché», gli ospiti hanno l’obbligo di cantare. Sull’aria di Come pioveva Coppi e Bartali arrivano persino ad accennare alle «bombe»:
Fausto: «Giri d’Italia ne hai vinti tanti, senza mai prendere droghe eccitanti…».
Gino: «Giri d’Italia lui sì, li vinceva, ma le prendeva, oh se le prendeva…».
Alla voce Tunnel mi sono lasciato vincere dall’emozione, perché la Milano-Sanremo è stata la corsa per cui, bambinetto, mi sono innamorato del ciclismo, ma non solo: «Da una parte l’inverno, dall’altra la primavera. Da una parte la nebbia, dall’altra il sole. Da una parte il grigio, dall’altro l’azzurro. Ma il 19 marzo 1946 la galleria del Turchino era un passaggio molto più lungo e buio delle poche decine di metri dello stretto tunnel che divideva, lungo la statale 456, il Piemonte dalla Liguria. Si tornava a correre la Milano-Sanremo dopo i due anni più terribili del lungo conflitto».
La Classicissima resta pur sempre la corsa della nostra infanzia quando si stava ancora ore e ore ai bordi delle strade in attesa del passaggio dei corridori. È la corsa più simbolica che esista al mondo perché segna un passaggio stagionale. È la corsa attraverso cui il ciclismo ha conosciuto la prosa d’arte. Già negli anni Sessanta Gianni Brera si lagnava della «facilità» della gara: «Così ho invocato che il ciclismo tornasse per l’occasione della Sanremo alle sue tradizioni autentiche, ridiventando fatica improba, sgrugnare di poveracci gagliardi, sofferenza stoica, estro, coraggio».
Forse Brera aveva in mente la Milano-Sanremo del 1946 vinta da Coppi con 14 minuti sul secondo, Lucien Teisseire; il gruppo arrivò dopo 20 minuti. Nicolò Carosio, dopo aver annunciato alla radio la vittoria di Fausto, disse: «In attesa degli altri concorrenti, trasmettiamo musica da ballo».
Il Giro dell’Appennino del 18 settembre 1955 è stata l’ultima vittoria per distacco della carriera di Coppi: «La corsa, nelle sue prime battute, passava da Novi Ligure e transitava proprio di fronte a Villa Coppi: in mezzo al pubblico che applaudiva, Fausto vide Giulia con in braccio Faustino che aveva appena compiuto quattro mesi, e sorrise. Poi, quando arrivò la salita, Coppi forzò il ritmo». Fu anche l’ultima cronaca di Mario Ferretti, cui è attribuito il più famoso incipit radiofonico, nella leggendaria Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Di questo straordinario attacco, degno della più grande letteratura, per costruzione sintattica, per la straordinaria capacità di scaraventare l’ascoltatore in medias res, per il fraseggio da Quinta di Beethoven, non esiste documento sonoro. E infatti non sempre è riportato nella lezione corretta. Che nessuno conosce, se non nel ricordo. Potrebbe essere un calco del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio».
Quella sera, Mario Ferretti lasciò l’Italia, s’imbarcò per l’America, insieme all’amante Doris Duranti, famosa attrice dei «telefoni bianchi». Una scelta quasi coppiana, quella di Ferretti. La voce si chiama Distacco. Aveva pagato la militanza fascista, a differenza di molti suoi colleghi dell’Eiar, tutti resistenti in pectore, tutti aedi della nuova Rai. Poi anche Ferretti era stato riabilitato. Ma questa è un’altra storia.
L’Alfabeto Coppi è costruito attraverso storie, che riprendono altre storie, cronache, biografie, favole: la leggenda Coppi si espande così in un ventaglio di molti spicchi. In ciascuna voce si riflettono le altre e tutte ci sfiorano come una ragnatela di ombre. Il libro, per fortuna, non ha l’ambizione della completezza o della sistemazione ideologica. Procede collezionando ritagli di verità e suggestioni neglette che aspettavano solo di essere svelate. Questa la sua indecifrabile bellezza.