Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019
Il patto dell’omelette tra Verne e Dumas
Pare che tutto sia cominciato con un’omelette. Nel 1848, anno che ebbe in tutta Europa una certa rilevanza, un provinciale ventenne arrivò a Parigi, dove grazie a uno zio iniziò a frequentare i salotti che contavano. Una sera, mentre saliva le scale di un palazzo importante, dette uno spintone a un uomo corpulento e senza fiato. Invece di scusarsi, domandò sfrontatamente: «Sono sicuro, Signore, che avete cenato?». «Perfettamente, buon giovane», rispose quello, «addirittura con un’eccellente omelette alla pancetta cotta alla maniera di Nantes e…». «Le omelette alla pancetta alla moda di Nantes fatte a Parigi non valgono nulla», interruppe l’altro, «bisogna prepararle con lo zafferano». «Allora voi sapete fare le omelette?». «Non solamente le so fare, ma le so anche mangiare. Ne avete per caso una sottomano?». «Siete un insolente! Ecco qui il mio biglietto da visita. Inutile che mi diate il vostro. Verrete da me mercoledì – a fare un’omelette». L’uomo di abbondante corporatura era Alexandre Dumas padre, l’autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo: il provinciale ventenne, Jules Verne, futuro scrittore del Giro del mondo in ottanta giorni, e di cento altri romanzi d’avventura e di fantascienza.
Invitato da Dumas al Castello di Montecristo, la sontuosa dimora in stile rinascimentale che lo scrittore s’era fatto costruire, e divenuto anche amico del figlio di lui, l’autore della Signora delle camelie, Jules Verne frequentò Dumas con assiduità e lo ammirò moltissimo. Dumas fece per lui di più: gli mise in scena, al suo Théatre Historique, un dramma che aveva appena composto. Passavano le serate a discuterne i particolari sin quando non arrivavano gli habitué. Allora Dumas si precipitava in cucina rimboccandosi le maniche, e confezionava maionesi sapienti e omelette squisite: così straordinarie che Verne ne conservò intenerito ricordo per tutta la vita. Le omelette, evidentemente, dominarono i loro rapporti. Che dovettero esser ben stretti anche idealmente, se Alexandre Dumas figlio disse una volta a Verne: «Siete suo figlio più di me», e di lui dichiarò: «È Mio Padre: i cui personaggi hanno lasciato lo stocco per il revolver».
In una di quelle serate al Castello di Montecristo un’idea che gli parve subito entusiasmante nacque nella fertile mente di Jules Verne. Il quale era rimasto fulminato dal Conte di Montecristo, dal mirabolante intreccio che conduceva il giovane Edmond Dantès a una prigionia di quattordici anni nel Castello d’If, poi all’isola di Montecristo dove diveniva ricchissimo Conte. Il tradimento degli amici, che lo denunziavano come agente bonapartista! L’abate Faria, che scava tunnel nel Castello per fuggire, lo istruisce in ogni sorta di disciplina, e morendo gli dà modo di evadere dall’orrenda prigione sostituendosi al corpo del vecchio quando il sacco viene gettato in mare per la sepoltura. Che storia! Dantès-Montecristo-Lord Wilmore-Abate Busoni-Sinbad si dedicava poi alla vendetta contro i vecchi amici traditori e uno per uno – Mondego, Caderousse, Villefort, Danglars – li conduceva alla rovina e alla morte, risparmiando solo l’ultimo, sinceramente pentito. Meglio di Ulisse con i Pretendenti di Penelope. E per di più, una storia provvista di cento ramificazioni diverse. Però.
Però Verne non si rassegnava alla conclusione del Conte di Montecristo. Che dopo la ferocia monomaniaca della vendetta ci fosse bisogno di un Dantès pronto al perdono e all’amore, non dubitava. Ma quella sua partenza finale con Haydée verso lidi sconosciuti era debole: esigeva sviluppi ulteriori. Qualche altra avventura: un altro, o altri, intrecci. Non gli sembrava proprio il caso di limitare la sfera d’azione del Conte di Montecristo al Mediterraneo: doveva estendersi ai grandi oceani, diventare più marinaresca: e più drammatica. Verne aveva letto, appena uscito, un libro intitolato Moby Dick. Era di un americano, e sembrava dominato da estrema, totalizzante follia. Una balena bianca! Perseguitata da un capitano zoppo e furioso. E infine vincitrice. Ma non si era mai sentito di leviatani dotati di intelligente malvagità. Chiaro: il mostro di Melville doveva essere un oggetto costruito dall’uomo, un qualche tipo di nave mai vista prima. Magari capace di navigare sott’acqua, nel pelago più profondo.
Un sottomarino. Nella fervida fantasia di Jules Verne prendeva forma il sommergibile. Un misterioso agente di vendetta, un Montecristo degli abissi lanciato contro la flotta inglese. Non avevano, gli inglesi, dato la caccia all’Imperatore sino a rinchiuderlo in un’isola remota in mezzo all’Atlantico? Per contrappasso, quel Moby Dick sottomarino, il Nautilus, doveva dar la caccia agli inglesi. E chi poteva costruire il Nautilus meglio di colui che l’abate Faria aveva istruito in ogni scienza? Edmond Dantès, Conte di Montecristo: Lord Wilmore in persona. Il Conte di Montecristo lasciava subito Haydée sull’Isola d’Elba e partiva per una nuova impresa.
Verne non era uno sciocco, né uno sprovveduto. Tutto preso dalla sua fantasia, capiva di aver bisogno di un qualche appoggio autorevole. Si rivolse all’amico, il giovane Alexandre Dumas. Ma quello, perduto nella sua Traviata, si limitò a indicargli il padre. Allora una sera, mentre Dumas il vecchio sfornava omelette ai porcini, oppure ai gallinacci, aglio e prezzemolo, Verne prese il coraggio a quattro mani e domandò al grande scrittore se non avesse mai pensato a una continuazione del Conte di Montecristo. E gli espose il suo piano. Dumas stava facendo saltare l’omelette, ma la manovra di rivoltarla non gli riuscì. Spalancò gli occhi, poi li spinse dal volto di Verne al parco del Castello di Montecristo. Era decisamente uno sfrontato, il ventenne provinciale. Ma non privo d’ingegno. Perché non dargli licenza di prolungare le avventure di Edmond Dantès a bordo di un sottomarino?
Anzi, ora che ci pensava, si sarebbe potuto … sì, si sarebbe potuto persino immaginare un ultimo tassello. Dumas lasciò che l’omelette ricadesse nella padella e l’abbandonò al suo destino. Poi squadrò il ventenne con occhi beffardi ma comprensivi. «Certo», gli disse, «fategli percorrere, a Edmond Dantès, una ventina di migliaia di leghe sotto i mari, dategli il nome col quale Ulisse si presentò a Polifemo, Nessuno – magari in latino: Nemo – e poi …» «Poi fategli raggiungere un’isola vulcanica in mezzo al Pacifico. Laggiù arriverà dopo un po’ un piccolo gruppo di americani sfuggiti in pallone alla Guerra Civile». Verne avrebbe baciato le ginocchia del Maestro. «A questo punto», dichiarò Dumas, «il vostro corso è chiaro. Basta seguiate il Robinson Crusoe e lo adattiate alla situazione e ai tempi. Gli yankees, sotto la guida dell’ingegnere Cyrus Smith, ricostruiranno sull’isola la civiltà americana. Nei momenti di bisogno, io … cioè, volevo dire, Dantès, darà loro una mano. No, niente Montecristo! L’isola dovrà rimanere misteriosa».
«Ma alla fine, caro Verne, ci dovrà essere una scena di riconoscimento mirabolante. Gli americani penetrano in un’enorme grotta marina, al centro della quale si staglia, tutto illuminato, il Nautilus. Dentro il quale, in un magnifico salone, giace il vecchissimo Nemo: Edmond Dantès. Smith avanza alla testa del gruppetto ed esclama: “Ci avete chiamati, Signor Conte. Eccoci” – Se saprete scriverla, caro Verne, sarà una delle vostre fantasie più luminose, originali e travolgenti tra quelle che già m’incantano, un’omelette», concluse ammiccando, «con tanto di pancetta e zafferano».
Quella sera, Jules Verne pensò a come chiudere il ciclo. Haydée, incinta di Edmond Dantès, dava alla luce un bambino, si lasciava corteggiare e sposava un Conte ungherese, il quale adottava l’infante e gli dava il proprio nome: Mathias Sandorf, «il Montecristo dei Viaggi Straordinari». Lo avrebbe dedicato ad Alexandre Dumas figlio e alla memoria di suo padre, «narratore geniale».