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 2019  luglio 28 Domenica calendario

Intervista con Adrian McKinty

Se avete un figlio preadolescente, comprate un altro romanzo giallo. Altrimenti, rischiate di non farlo più uscire di casa da solo e di essere ossessionati da un dubbio morale: quale limite sono disposto a violare per salvargli la vita? Se siete uno scrittore in cerca di successo, però, non perdete la storia dentro la storia di The Chain (Longanesi, traduzione di Alberto Pezzotta: il titolo, «la catena», è volutamente lasciato in lingua originale), il giallo che promette di fare la fortuna del cinquantunenne Adrian McKinty, ex autore destinato all’insuccesso. «La Lettura» lo incontra al Crime Writing Festival di Harrogate, la cittadina termale nel cuore dell’Inghilterra dove Agatha Christie si nascose negli 11 giorni in cui sparì dal mondo, dopo il tradimento del marito, e dove oggi alcuni fra i più grandi giallisti si ritrovano ogni estate per incontrare i lettori.
Diciotto libri pubblicati, molti premi, tanti debiti… McKinty, partiamo da qui?
«Siamo stati sfrattati da casa, in Australia. Avevano messo le nostre cose, i mobili e tutti gli effetti personali, in strada. Lì con me, sul marciapiede, c’erano le mie due figlie. “Papà, andrà tutto bene, vero?”, mi hanno chiesto. E io: “Certo!”. Ma nel mio cuore non ero affatto sicuro. E mi sono detto che questa roba dello scrivere era una stronzata. “Domani vado a cercarmi un lavoro vero, per mantenere la famiglia”. Mia moglie era l’unica che portava a casa uno stipendio. Io andavo alle conferenze, ai festival letterari, vincevo premi, mi applaudivano. Non guadagnavo niente. Il giorno dopo ho iniziato a lavorare in un bar, poi a fare l’autista di Uber. Dovevo lasciare il mio ego alle spalle. Ho scritto un post online annunciando che smettevo di scrivere. È a quel punto che è arrivata la telefonata di Don Winslow. “Adrian, non voglio che tu smetta, voglio leggere il tuo prossimo libro”».
Non aveva mai incontrato Don Winslow, il re del poliziesco americano?
«L’avevo incrociato per 5 minuti a una conferenza. Niente di più».
Sembra una fiaba. Da autista di Uber a numero 7 nella classifica del «New York Times», «instant bestseller» in Usa. E il libro sarà pubblicato in 31 Paesi. Che effetto fa?
«Sono eccitato, confuso, completamente sconcertato. Non ci credo ancora».
Paramount Picture ha comprato i diritti per fare un film. È fuori dal tunnel…
«Se il film si farà davvero, sì (ride). Starò bene. Era già successo con uno dei miei libri, 15 anni fa, poi non se ne fece più nulla. Stavolta sono cauto. Vedremo».
Torniamo alla telefonata di Winslow…
«Due settimane dopo mi chiama il suo agente hollywoodiano, Shane Salerno. Era mezzanotte passata. “Voglio che tu scriva una storia americana”, mi dice al telefono. Ce l’avevo in testa da anni. In Messico avevo letto degli “scambi di sequestrati”: rapiscono un membro della tua famiglia, magari la nonna, e mentre viene raccolta la somma per il riscatto ti offri di prendere il suo posto. E poi c’erano le catene di Sant’Antonio, così spaventose e diffuse in Irlanda del Nord quando ero ragazzino, “fai tre copie di questa lettera e spediscile, altrimenti tua madre muore”. Un giorno la maestra ci fece portare tutte le lettere a scuola e le bruciò. È ancora viva, a Belfast, ha 88 anni. Così è nata l’idea di una donna che rompe la catena dei sequestri. Ho risposto a Shane che avevo una storia. Erano le due del mattino. Mi ha convinto a scrivere il primo capitolo quella stessa notte. Alle 4 avevo le prime 40 pagine. Mi ha richiamato: “Ora ne servono altre 300”».
È l’eterna lotta fra il bene e il male, stavolta però la vittima diventa anche carnefice. L’hanno ispirata i suoi studi in filosofia?
«All’Università di Oxford ho studiato i tre principali sistemi etici: utilitarismo, deontologia kantiana e l’Etica nicomachea di Aristotele. Volevo che anche la protagonista Rachel fosse una filosofa (e pure autista di Uber, ndr) perché potesse essere cosciente del fatto che, eticamente, stava facendo la cosa sbagliata. Non puoi essere una persona virtuosa solo razionalmente, devi essere virtuoso nelle azioni. E rapire un bambino non è eticamente accettabile. Volevo che Rachel facesse scelte terribili eppure che i lettori continuassero a essere dalla sua parte. Sentendosi scomodi ma augurandosi il suo successo, per quanto orribile».
Alla fine il bene deve vincere sempre?
«No. Nelle serie letterarie sai che il protagonista alla fine se la caverà, perché deve comparire nel libro successivo. Nei romanzi stand alone, invece, sino alla fine non sai che cosa succederà, se il protagonista vincerà o no, se si salverà o morirà. E anche lo scrittore ha una straordinaria libertà. Magari ucciderò tutti nell’ultima pagina».
Che cosa funziona meglio in un thriller: il sangue o la paura?
«La paura. Anche se io sono uno che si spaventa molto. Ad esempio, non mi piacciono i film horror, ho appena visto Midsommar e sono uscito dal cinema terrorizzato. Quando scrivo va meglio, perché so quello che succederà dopo. Come lettore, probabilmente la trama di The Chain mi avrebbe fatto paura. Soprattutto perché ho due bambine».
E nella vita reale cosa le fa più paura?
«L’impotenza in caso succeda qualcosa alla mia famiglia. Ad esempio, se mi trovassi all’estero e non potessi fare nulla per aiutarli».
Cosa farebbe per salvare le sue figlie?
«Qualsiasi cosa».
Anche rapire un altro ragazzo?
«Credo di sì. Eticamente è sbagliato ma se a rischio è la vita di mia figlia lo farei».
E nella sua coppia chi sarebbe più forte, se venissero rapite, papà o mamma?
«La madre. Mia moglie è quella che ha tenuto insieme la famiglia nei tempi bui. Io facevo questa vita da scrittore squattrinato. Lei lavorava a tempo pieno come insegnante, portava i figli a scuola e i soldi a casa».
Rachel è un personaggio autobiografico?
«Sì, c’è molto di me in lei. Quando rapiscono sua figlia, scopre di avere qualità che non aveva mai saputo di possedere. Io non so sparare, non so entrare in una casa, non so come entrare nel dark web o acquistare bitcoin. Se uno si trova in quella situazione, deve imparare tutto questo. Rachel non perde tempo a piangere, deve salvare sua figlia».
Una superdonna. Come la figlia Kylie. Invece, i maschi nel romanzo fanno una figura pessima. È l’effetto #metoo?
«Volevo che Rachel fosse un personaggio che cresce lungo la storia, che prende le redini della situazione. E che il suo ex marito risultasse inutile. Ho incontrato molti uomini così. Uno che ha il vento in poppa nella vita ma non è poi così intelligente. Invece, volevo che Pete, il co- protagonista maschile, fosse più competente ma con molti problemi».
Pete è un perdente, uno strano eroe…
«Pete combatte i suoi stessi demoni e alla fine supera il suo passato».
C’è qualcosa di personale?
«Rispetto il personaggio Pete. Anche io amo andare nei boschi e sono il tipo che alle feste non parla e resta appoggiato al muro».
Quanti anni hanno le sue figlie? L’hanno ispirata per i personaggi più giovani?
«Sedici e 12 anni. Sì, Kylie non è nessuna di loro due ma un po’ entrambe. Soprattutto quando parla il linguaggio dei teenager, Instagram e tutte quelle cose di cui non so nulla».
Nel romanzo c’è una critica forte ai social network e ai rischi connessi. Non li usa?
«Non ho Facebook ma ho fatto molte ricerche ed è stato incredibile scoprire come funziona. Se clicchi su un amico, ti compaiono i suoi amici e così via. Puoi sapere tutto di perfetti sconosciuti. Ed è straordinario quante cose la gente rivela su Facebook. Una donna scrisse che la sua porta di casa era rotta, che nessuno poteva passare ad aggiustarla e lei doveva andare a lavorare lasciando la casa aperta ai ladri. E tutti potevano leggerlo».
Ha proibito alle figlie di usare i social?
«No, ma ho spiegato che dovevano essere molto attente a come li usano».
Quale libro l’ha ispirata di più nella vita?
«A scuola ci facevano leggere libri noiosi... Dei tomi alti così di Charles Dickens... Poi ho letto Lo Hobbit e Il Signore degli anelli, divertenti, con draghi e avventure... È stata la svolta della mia vita».
Scriverà storie ambientate in Italia?
«Non so. Amo l’Italia. Verremo presto in vacanza a Roma, Firenze e Venezia. Chissà...».