Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019
A tavola con Paolo Mongardi
«N on siamo mai stati figli di un Dio minore. E non siamo figli di un Dio minore tanto meno adesso. Siamo qui in Emilia Romagna, il cuore dell’Italia più vitale e ricca, meno depressa nell’anima e meno paralizzata nei progetti. Siamo espressione della manifattura più avanzata del Paese. E, nonostante le questioni aperte dalle nostre origini e dalla nostra forma societaria, l’identità cooperativa funziona. E resta quella sintetizzata cento anni fa».
Qui al San Domenico di Imola – uno dei primi ristoranti stellati del nostro Paese, il riconoscimento Michelin risale al 1975 – Paolo Mongardi sorseggia un bicchiere di champagne cuvée brut Laurent-Perrier e tira fuori dallo zainetto la fotocopia dell’atto costitutivo della Società Anonima Cooperativa Meccanici, redatto il 2 dicembre 1919 dal notaio Arturo Filippini, nello studio di Via Mazzini a Imola.
La Sacmi, oggi, è la maggiore cooperativa manifatturiera italiana. Mongardi, che ne è il presidente, addenta – e io con lui – minitoast al prosciutto e formaggio, assaggia i tortellini fritti, gusta i bon bon di parmigiano con spuma di mortadella. E, poi, legge le parole che appunto sintetizzano la radice storica di una forma insieme economica e civile: «“Lo scopo sociale è di corrispondere ad ogni operaio il salario più esattamente proporzionale alla sua prestazione d’opera”. Hai sentito? Già cento anni fa si esprimeva il concetto di congruità del salario. Mi viene una grande rabbia, se penso alle false cooperative che, nell’ambiguità o nella disonestà dei comportamenti aziendali e personali, sono entrate negli scandali degli ultimi anni e hanno gettato un’ombra su tutto il nostro mondo».
Arrivano gli antipasti: lui prende un cuore di filetto di baccalà in olio di cottura, con emulsione di patate e chips di pomodorini, io un arrostino di coniglio al rosmarino con crema e insalatina di funghi. Nella seconda metà degli anni Ottanta, il San Domenico di Imola va bene: ha ricevuto da tempo la seconda stella Michelin e ha aperto un ristorante a New York, nel South Central Park, a fianco di Columbus Circle. Nel 1990 la società che lo controlla ha una crisi finanziaria. «È a quel punto che la Sacmi organizza il salvataggio rilevando la parte immobiliare ed effettuando una ristrutturazione che ha trasformato l’intero quartiere», racconta Mongardi.
Mongardi, classe 1964, è entrato in Sacmi nel 1985, dopo il diploma da perito industriale ottenuto con sessanta sessantesimi all’istituto tecnico Alberghetti di Imola («allora l’università era considerata un di più, qui le imprese si strappavano i neodiplomati più brillanti, anche se forse ho sbagliato, mi sono iscritto, ma poi non ho studiato con convinzione mentre lavoravo») e dopo la leva militare da carabiniere ausiliario a Bologna: «Ho assistito alla coda del terrorismo e alle prime stragi della mafia fuori dalla Sicilia. Sono stato fra i primi a salire nella notte del 23 dicembre 1984 a San Benedetto Val di Sambro, quando una bomba esplose sul treno 904, il rapido da Napoli a Milano, facendo 16 morti e 267 feriti».
Paolo rappresenta bene la doppia dimensione del mondo cooperativo: può essere vestito come un banchiere di UniCredit o di Intesa Sanpaolo o può indossare la classica camicia bianca con le maniche arrotolate, propria della iconografia del cooperatore. Può avere al polso uno Swatch o un Rolex d’acciaio. È presidente di una realtà industriale governata con il meccanismo della democrazia economica diretta: il consiglio di amministrazione composto da cinque membri è eletto da 380 soci, ciascuno dei quali dispone di cinque voti. La Sacmi ha 4.400 addetti. È specializzata in macchine per la produzione di piastrelle, bottiglie ed etichette, tappi e packaging per il cioccolato. Ha 1,44 miliardi di euro di fatturato (l’85% all’estero), un margine operativo lordo di 150 milioni, 50 milioni destinati ogni anno alla Ricerca & Sviluppo, una posizione finanziaria netta neutra e un patrimonio di 721 milioni.
«Se ti posso consigliare, prendi l’uovo in raviolo San Domenico. È una delizia. Un raviolo con dentro un tuorlo, con sopra burro di malga, parmigiano dolce e tartufo di stagione», dice mentre ci viene a salutare lo chef Max Mascia, 36 anni, che ha raccolto l’eredità dello zio Valentino Marcattilii, primo cuoco del San Domenico.
In Italia la cooperazione ha due matrici storiche, che risalgono a due secoli fa: quella rossa, generata dal movimento socialista e sviluppatasi all’ombra del Partito Comunista Italiano, e quella bianca, nata dalla costola del cattolicesimo sociale e cresciuta nell’orbita con la Democrazia Cristiana. «Ma quello è un mondo dell’altro secolo. E, peraltro, le cose già nell’altro secolo erano molto più articolate di come sembrassero. Nel 1979 la Sacmi si emancipò dalla politica. All’insegna del fare affari con chiunque, dei soldi che non hanno colore e di una gestione del tutto svincolata dal Pci».
Nelle parole di Mongardi, percepisci una adesione, non ideologica ma pragmatica, al concetto e alla quotidianità del mercato: «Noi siamo sul mercato tutti i giorni da quarant’anni, il nostro salto evolutivo è avvenuto alla fine degli anni Settanta. Non solo con la rottura di ogni legame con la politica, ma anche con il passaggio dalle singole macchine agli impianti e con l’internazionalizzazione. I nostri primi clienti stranieri furono in Jugoslavia, Libia e Turchia».
Fin dagli anni Ottanta i rapporti di forza si sono invertiti, con l’ascesa delle coop e con il declino politico della sinistra. La caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli e il passaggio alla Seconda Repubblica hanno fatto il resto: il potere, nel senso della influenza sulla società e sulla economia, è passato dalla parte delle cooperative. Come secondo arriva una sella di maialino – del tipo mora romagnola – al sale dolce di Cervia, con cartoccio di carciofi croccanti. E, forse su impulso della forza profonda del barbaresco del 2016 Meruzzano del produttore Orlando Abrigo, si risvegliano alcuni pensieri, scomodi per tutto il mondo cooperativo. Dice Mongardi: «Il progetto di Gianni Consorte era industrialmente corretto. L’aggregazione fra una compagnia di assicurazioni e una banca aveva un senso economico preciso. Le ragioni che portarono Unipol nella estate del 2005 a tentare la scalata a Bnl erano razionali. Nei quindici anni successivi, in Italia e in tutta Europa si sono create sinergie operative e intrecci azionari fra banche e assicurazioni. Il modello è quello. Poi, quello che successe veramente, io e tutti gli altri cooperatori non lo sapevamo allora e non lo sappiamo oggi. Lo possiamo intuire».
Mongardi, con il suo physique du rôle e la parlata diretta da cooperatore, è un uomo di affari e di società. Ha l’orgoglio per la condizione di mercato della Sacmi. Ha la convinzione della efficienza e della virtù della democrazia economica. Non ha paura di affrontare – seppur con prudenza – uno dei temi più scabrosi per la cooperazione italiana. In quella estate, Mongardi era un semplice spettatore. Non era ai vertici di Sacmi. Era come un bambino che osservava con il naso schiacciato sulla vetrina quello che succedeva all’interno della pasticceria: «L’idea che mi feci allora resta valida. Furono compiuti errori, ma vi fu un compattamento molto forte del potere tradizionale italiano per evitare che Unipol prendesse una delle banche che erano state centrali nella Prima Repubblica».
Secondo Mongardi, si verificò anche una chiusura a riccio del vecchio sistema di equilibri fra politica, finanza e industria che, in qualche maniera, rifiutò il mutamento del tessuto produttivo italiano. Il Novecento italiano è stato un secolo breve: già negli anni Novanta il capitalismo delle famiglie storiche si indebolisce, l’economia pubblica imperniata sulla vecchia Iri si esaurisce, cambia il modello produttivo italiano con la fine del paradigma della grande impresa, allo stesso tempo aumenta il peso specifico dei territori – prima ancora che delle imprese – aperti ai mercati internazionali. La gerarchia fra città ed economie locali muta, con la archiviazione del vecchio Triangolo Industriale e l’emersione graduale dell’Italia di mezzo, per esempio quella dell’Emilia Romagna e della Toscana in cui le coop, in particolare di matrice rossa, hanno un radicamento significativo. Bologna e Imola, Treviso e Vicenza, Brescia e Bergamo, Firenze ed Ancona ampliano i loro perimetri sulla cartina degli equilibri italiani. «In quella occasione – riflette senza nostalgia cinica, ma con realismo pragmatico – le coop non riuscirono ad occupare il posto a tavola che, a mio avviso, spettava loro».
Il discorso amaro di Mongardi viene compensato dallo chef Mascia che ci porta dei dolci che, in miniatura, imitano la natura e le piante. Il passato, il presente e il futuro. Al caldo delle tre del pomeriggio, fra le siepi e sugli alberi secolari del chiostro le cicale friniscono così forte che si sentono fino all’interno del San Domenico. L’albana passita del 2013 della fattoria Monticino Rosso, prodotta a pochi chilometri da Imola, aiuta a passare dalla memoria al progetto. «Ma pensiamo al futuro, dai, lo sai che a marzo ci siamo affiliati al Mit di Boston? Questa cosa mi dà un gran gusto. Abbiamo accesso alle startup e alle tecnologie. Nel 1919 nove ragazzi disoccupati fondarono la Sacmi con una officina e una forgia. Ora noi dobbiamo riuscire a cambiar pelle con la dematerializzazione e la digitalizzazione». E, tutto questo, senza pensare troppo ai fantasmi.