Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019
Europa sottozero sui titoli di Stato
Francia e Belgio sono soltanto gli ultimi due Paesi all’interno dell’Eurozona ad aver visto precipitare sottozero i tassi dei propri titoli di Stato decennali. Prima di loro, fra gli emittenti principali, la stessa sorte era toccata a Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia. L’Irlanda potrebbe essere la prossima a cadere nella «trappola» dei rendimenti negativi per la scadenza più seguita dagli investitori, mentre per Spagna e Portogallo resta ancora qualche margine e Italia e Grecia si mantengono decisamente più a distanza di sicurezza.
Curiosità statistiche a parte, il paradosso che caratterizza il decennio attuale sta assumendo dimensioni impensabili qualche mese fa e potrebbe ulteriormente allargarsi, visto che la Bce guidata ancora per qualche mese da Mario Draghi ha manifestato tre giorni fa la chiara intenzione di allentare ancora la propria politica monetaria, già di per sé espansiva. Oggi per trovare un titolo che renda almeno un centesimo un investitore deve andare oltre i 10 anni in Austria, Finlandia, Francia e Belgio, aspettare oltre 15 anni in Olanda e addirittura più di 20 in Germania.
Nel complesso, secondo quanto rileva UniCredit Research, il 61,8% dell’ammontare di titoli di Stato presenti sul mercato nell’Eurozona mostra un segno meno di fronte al rendimento, con punte difficilmente raggiungibili in Germania (91,2%), ma anche Finlandia (87,7%) e Paesi Bassi (81,7%). A conti fatti si tratta di una montagna «alta» 3.700 miliardi di euro,che per di più è cresciuta in misura notevole grazie anche all’accelerazione impressa dal cambio di direzione operato dalla Bce (e indirettamente dalla Federal Reserve americana) negli ultimi mesi: poco più di un anno fa l’ammontare dei titoli a tasso negativo nell’area euro si attestava al 35 per cento, per un totale complessivo in termini di controvalore sempre di rilievo, che a stento superava i 2mila miliardi.
L’eccezione Italia
Da allora la quota di bond sovrani sottozero è lievitata per tutti i Paesi, o quasi. Come si può apprezzare nel grafico sotto, l’Italia si mantiene infatti su un livello inferiore rispetto alla foto scattata al 30 aprile 2018 e anche il rally a cui stiamo assistendo negli ultimi due mesi (il rendimento del BTp decennale viaggiava qualche giorno fa ai minimi dall’autunno del 2016) non è stato sufficiente a cancellare le pressioni che si sono scatenate prima in corrispondenza dell’insediamento del governo Lega-5 Stelle, poi con il braccio di ferro con la Ue sul bilancio pubblico.
Una circostanza quest’ultima che – secondo Kornelius Purps, strategist sul reddito fisso di UniCredit – esercita il suo bel peso sulle vicende dello spread italiano. «Sembra esserci un costo associato all’adozione di una posizione di confronto con la Commissione europea in materia fiscale», nota infatti l’esperto obbligazionario, pur riconoscendo che «le recenti modifiche al bilancio hanno aiutato l’Italia a evitare una procedura per i disavanzi eccessivi e hanno sostenuto il suo mercato obbligazionario, che ora mostra livelli di rendimento più vicini a quelli degli altri concorrenti nella zona euro».
A complicare la vicenda contribuisce il fatto che l’Italia resta anche l’unico fra i Paesi presi in considerazione dalla ricerca che non è stato negli ultimi 15 mesi in grado di ridurre il rapporto debito/Pil, passato anzi nel frattempo dal 131,4% al 132,2 per cento. Una zavorra, questa, che si traduce per i nostri conti pubblici in un’incidenza sul Pil degli interessi pagati sul debito pari al 3,4%, molto di più di quanto avviene per esempio per la Spagna (1,92%) e per la Germania (addirittura appena lo 0,59%). E della quale si deve ovviamente tenere conto quando si pensa alle prospettive dei rendimenti dei titoli di Stato.
Non solo «Qe»
L’atteggiamento della Bce, ribadito giovedì scorso dal presidente Mario Draghi nella conferenza stampa tenuta al termine della riunione del board, pare del resto di nuovo favorevole ai bond sovrani. A maggior ragione se l’Eurotower dovesse imbarcarsi in un ulteriore round di acquisti di titoli, riaprendo nei prossimi mesi quel Public sector purchase programme interrotto a inizio anno. Il quantitative easinggarantisce certo una spinta non indifferente, ma non è tutto, come dimostra il recente passato.
Negli Stati Uniti i Treasury hanno vissuto vicende alterne mentre si sviluppavano le varie fasi di acquisto della Federal Reserve, rispondendo anche alle notizie provenienti dal panorama macroeconomico, hanno toccato i minimi oltre un anno e mezzo dopo la chiusura del piano, avvenuta a fine 2014, e tuttora si mantengono su quei livelli. Ancora più interessante, ai nostri occhi, è l’esempio europeo e in particolare quello italiano. Nonostante l’indubbio sostegno del «Qe», ricorda il Team Multi-asset di M&G Investments, abbiamo assistito a tre differenti fasi durante le quali, pur con il piano Draghi in corso, i BTp hanno subito una svalutazione di prezzo superiore al 10 per cento: due volte, nella primavera del 2015 e nell’autunno 2016, per ragioni legate a movimenti generalizzati sui mercati obbligazionari (come dimostra la correlazione con i tassi Usa) e l’ultimo episodio nella seconda metà dello scorso anno, dovuto però alle tensioni politiche.
Del resto, come sottolinea M&G, «un significativo ammontare di debito italiano, pari a 365 miliardi, è nelle mani della Bce, ma la stragrande maggioranza è detenuta da altri investitori che, se dovessero cambiare percezione sul Paese, potrebbero far variare i rendimenti». Un avvertimento nei confronti di chi pensa che i rendimenti dei bond governativi europei (e non soltanto di quelli italiani) possano muoversi in un’unica direzione nel caso la Bce dovesse nuovamente premere sull’acceleratore, come appare probabile. E un monito, soprattutto, agli investitori che amano prendere scommesse a senso unico.