La Stampa, 28 luglio 2019
L’Hamburger in vitro
Fra il 1961 e il 2014 il consumo mondiale di carne è aumentato di quattro volte e mezza passando da 71,36 milioni di tonnellate a 317,85 milioni di tonnellate. Questo aumento esponenziale si è verificato in virtù del combinato fra la crescita del consumo pro capite (da 23 kg a 43 kg per persona all’anno) e quella dell’incremento della popolazione carnivora. La carne resta il pilastro dell’alimentazione negli Stati Uniti, in Argentina, in Australia e in Nuova Zelanda, paesi nei quali il consumo supera i 100 kg all’anno. Il contributo dell’allevamento alle emissioni di CO2 è enorme, tanto quanto lo sfruttamento delle risorse: basti pensare che l’impronta idrica di un chilogrammo di manzo (in media mondiale) è di 15.400 litri d’acqua, contro i 2.500 di un chilo di riso, i 1.850 di un chilo di pasta e gli "appena" 200 di un chilo di pomodori. Come sostenere una richiesta che continuerà ad aumentare anche in futuro? La risposta sembra arrivare da aziende come Mosa Meat, Just e Memphis Meat che, da alcuni anni, hanno intrapreso un percorso di ricerca e sperimentazione per portare sulle tavole di tutto il mondo una carne non inquinante, a basso impatto ecologico e in grado di fornire un’alternativa alla macellazione di 50 miliardi di animali l’anno.
Sono passati sei anni da quel 5 agosto 2013 in cui l’hamburger creato in laboratorio dallo scienziato olandese Mark Post è stato cotto e mangiato in diretta televisiva. In questo lasso di tempo gli investimenti fatti sulla coltura della carne in vitro sono aumentati in maniera esponenziale e i costi sono stati ridotti drasticamente, dai 250mila euro di quel primo «frankenburger» ai 50 dollari della bistecca presentata nel dicembre 2018 dall’israeliana Aleph Farm. Il pioniere della ricerca sulla carne coltivata è stato Willem Van Eelen, un imprenditore che, negli anni Novanta, grazie a finanziatori privati, riuscì a ottenere il primo brevetto per la carne senza vittime animali. Successivamente il governo olandese concesse due miliardi di euro a un consorzio di scienziati per portare avanti le sperimentazioni. Fra di loro vi era anche Mark Post, papà del primo storico hamburger artificiale che, oggi, è riuscito a far scendere il prezzo unitario fino a 500 euro. Attualmente le maggiori criticità restano il prezzo spropositato e il gusto, ma le aziende che hanno deciso di investire in questo settore sono sicure che la data dell’arrivo sul mercato sia più vicina di quanto si pensi.
Quando la carne coltivata diventerà abbastanza economica e saporita per sostituire quella di originale animale, laboratori e bioreattori prenderanno il posto di stalle e allevamenti intensivi. La carne artificiale dovrebbe avere dei vantaggi anche dal punto di vista sanitario, producendo alimenti non contaminati da batteri e privi dei residui delle cure con antibiotici. Oltre a ridurre in maniera drastica l’abbattimento dei capi, la carne coltivata ridurrebbe il consumo di terra, mentre resta aperto il dibattito sull’impatto ambientale, considerato il fatto che il processo di crescita risulta essere molto dispendioso energeticamente e poco sostenibile sotto il profilo delle emissioni di CO2. Per questa ragione un gruppo di ricercatori della Tufts University di Medford ha pubblicato di recente sulla rivista Frontiers in Sustainable Food un articolo che suggerisce una strada alternativa: la coltivazione della carne di insetto che rispetto a quella «tradizionale» avrebbe il vantaggio di una proliferazione molto più rapida senza l’utilizzo di sieri e altri derivati animali. Difficile dire quando troveremo bistecche e hamburger artificiali o polpa di insetto sulle nostre tavole, ma una cosa è certa: nei prossimi anni il tema sarà centrale nel dibattito sul futuro dell’alimentazione.