La Stampa, 28 luglio 2019
Una Las Vegas in Cambogia per i cinesi
Le buche hanno la dimensione di crateri. Quando piove diventano vasche titaniche che inghiottono la strada per decine di metri. Il taxi procede a passo d’uomo ma è una lotta impari, l’auto sobbalza a destra e a sinistra.
«Sono i danni collaterali delle costruzioni in corso», mi fa Boran che dall’aeroporto di Sihanoukville mi porta in città. Il traffico su strada è quintuplicato da quando i cinesi hanno preso di mira questo ex-villaggio sulla costa cambogiana. «Venti voli al giorno da Shenzhen, Guangzhou, sempre strapieni». All’orizzonte si stagliano decine di costruzioni, i palazzi che svettano sono Casino e Hotel, non hanno più di 12 mesi di vita.
Sino a un paio d’anni fa Sihanoukville era un sobborgo semisconosciuto oggi è la Mecca del gioco d’azzardo cinese nel sudest asiatico. Grazie al porto che si inserisce nella rotta commerciale della Belt and Road del presidente Xi Jinping, la città è diventata uno dei preziosi incastri della grande infrastruttura insieme alla Expressway che da qui arriverà a Phnom Penh.
Dal 2010 la Cina ha scavalcato il Giappone nella speciale classifica degli aiuti al Paese, e dal 2018 vanta quasi la metà del debito estero del piccolo Stato, un patrimonio di 5 miliardi di dollari. Gli eredi ideologici di Deng Xiaoping non si sono accontentati di ricostruire, ammodernandoli, i vecchi quartieri della città è l’intero assetto urbano che è stato preso d’assalto. Qui tutto è «under construction», e la trasfigurazione è stata così repentina che i turisti arrivati sin qui sedotti dalle immagini di invidiabili panorami con vedute di palme tra capanne con tetti in paglia, sono in fuga increduli.
«Avevamo pagato per tre notti abbiamo resistito 24 ore. Niente è come ci aspettavamo», si lamenta una coppia di tedeschi con le valigie in mano.
Per di più quelle che un tempo erano vivacissime spiagge, come Otres beach, sono ormai spopolate, il turismo che conta si è spostato sui tavoli da gioco.
«Solo 12 centimetri. È l’altezza di un pacchetto di centomila dollari in biglietti da 100». Mi fa Arun che ha sposato la figlia del proprietario francese di un ostello poco fuori città. «Li ho visti coi miei occhi, per i cinesi che frequentano i casinò sono spiccioli credimi».
Sui menu, dai ristoranti ai tour operator, dai minimarket ai taxi, ogni valore è espresso in dollari. Nessuna traccia del riel, la valuta locale.
Da qualche anno terreni e appartamenti non hanno prezzo, chi può cede ai nuovi conquistatori ma a cinque volte il valore di un anno fa. Il risultato è che i cambogiani stanno trasmigrando in massa verso la periferia, non solo per capitalizzare sulle vendite, ma anche per necessità.
Mai, ventisette anni, la incontro nell’isola di Koh Rhong Salomen a circa un’ora di motoscafo dal porto. Cinque anni alla reception di un Hotel a Sihanoukville, è testimone oculare del grande stravolgimento: la maggioranza dei clienti ha preso a esibire passaporti della Repubblica Popolare e il suo inglese – impeccabile - è diventato obsoleto nel giro di qualche mese. «Una volta era l’asso nella manica che ti apriva le porte del mondo del lavoro, ora nel curriculum vale meno di zero» dice. Di imparare il nuovo «esperanto» neanche a parlarne, «il cinese? Troppo complicato». La sua fortuna è che il turismo occidentale da qualche anno ha preso di mira le favolose spiagge isolane, qui il suo inglese è ancora utilissimo. «Gli europei venerano il mare quanto i cinesi il panno verde in lana dei tavoli da gioco», ironizza.
Mi indica una famiglia della provincia del Guangdong seduta al tavolo nel gran patio dell’hotel con l’oceano spalancato davanti, «vivono a Phnom Penh ma un giorno a settimana vengono qui per ispezionare i cantieri. Il lunedì se ne tornano a casa senza essersi neppure bagnati i piedi».
La dicotomia del paesaggio umano si fa più marcata al Community Pier di Kohn Rong, il porto-hub da dove salpano i motoscafi-taxi per le spiaggette più esclusive. La facciata del porto è ancora tutta in costruzione. C’è uno strano ambientino fatto di tipi in canottiera, ipertatuati che fumano a manetta gettando le cicche in mare. Sono gruppuscoli di cinesi che operano nel settore alberghiero. I turisti occidentali, a petto nudo, attendono la loro barca e si dividono perfettamente l’altra metà della banchina, come separati da un’invisibile barriera. Da una parte quelli del mondo che connette attraverso l’inglese dall’altra la cultura ormai qui egemone. A distanza, si scambiano fredde occhiate di diffidenza. La sensazione è di trovarsi di fronte due pacifiche popolazioni aliene che non hanno né i mezzi né la voglia di incrociarsi.