la Repubblica, 28 luglio 2019
Contro i luoghi comuni
Quante volte davanti alle espressioni d’odio urlate nei microfoni e pubblicate nei canali social, si è sentito dire: si tratta solo di parole, non attribuiamo loro troppo peso e non diamo corpo ai fantasmi. D’accordo, ma poi capita che nell’apprendere della morte a Roma di un giovane carabiniere, dopo il dolore per un delitto tanto atroce, le notizie successive suscitino un sentimento tutt’affatto diverso: una sorta di innaturale sollievo perché, a ucciderlo, non sarebbero stati due “nordafricani”, come si è ipotizzato per tutta una mattinata, bensì un giovane statunitense di ottima famiglia. Analogamente, in passato mi era accaduto di augurarmi che l’autore di questo o di quell’efferato delitto fosse “un italiano” (magari di Legnano o di Castelfranco Veneto) e di dover poi riconoscere che la verità era un’altra.
Viene da dire: come ci siamo ridotti, e come siamo stati ridotti da anni di costruzione scientifica, metodica, e ossessiva della figura del capro espiatorio sul corpo vivo dell’immigrato straniero. Che la campagna degli imprenditori politici della paura abbia ottenuto un suo cupo successo è confermato da tante prove: tra le quali, anche la reazione mia e di, credo, molti come me, alla notizia dell’assassinio del carabiniere. Questo non dimostra, certo, che l’Italia sia un “Paese razzista” (ma che scemenza), bensì che la xenofobia, che è cosa assai diversa dal razzismo e che significa ciò che dice alla lettera, ovvero paura del diverso e dello sconosciuto, si diffonde e riguarda tutti noi. Anche coloro che si dichiarano fieramente anti – razzisti. Ed è proprio la xenofobia, che non è destinata necessariamente a tradursi in aggressività razzista, a dettare o comunque condizionare i nostri comportamenti e, ancor prima, i nostri pensieri in presenza di un evento traumatico (come, appunto, il delitto di due giorni fa).
Accade tutto in pochi istanti: negli attimi in cui apprendiamo la notizia già abbiamo formulato un pre-giudizio, che influenzerà opinioni e atti successivi. Li influenzerà sia nel momento in cui accoglie uno stereotipo e lo fa proprio (straniero=criminale) sia quando tenta, goffamente, di sottrarsi a esso: magari con la maldestra e un po’ ottusa ingenuità di sperare che un buon incremento dei reati nostrani possa riequilibrare il conto, oggi largamente favorevole ai reati forestieri. Ecco, quel sollievo e la rassicurazione che abbiamo voluto cogliere nel succedersi contradditorio delle notizie, costituiscono alcune delle impacciate strategie adottate per difendersi dal prevalere dei luoghi comuni. E dimostrano, per converso, quanto questi siano penetrati in ciascuno di noi, nella nostra mente e nel nostro cuore.
Il fatto criminale rischia di passare in secondo piano – come già è successo in numerosi casi precedenti – sopraffatto dal conflitto ideologico intorno all’identità del suo autore. A tal punto è diventata abnorme l’attività di propaganda e di manipolazione che, proprio a partire dall’enfasi sulla nazionalità del criminale, la questione etnica sostituisce quella penale. Per reagire a questa autentica mascalzonaggine che si fa politica di governo, non è certo sufficiente ribaltare lo schema oggi prevalente, anche se la tentazione è forte come segnala quel nostro sospiro di auto consolazione. Anni fa, Giuliano Ferrara che, notoriamente, non è un ardente militante del politically correct (anche se recentemente sembra ripensarci, e va a suo merito) aveva sostenuto l’opportunità di non segnalare nei titoli dei giornali l’origine regionale degli autori di reato. Personalmente la cosa non mi ha mai turbato ma conosco la frustrazione di tanti sardi bennati e di siciliani probi e di calabresi integerrimi nel vedere la propria identità territoriale sfigurata dall’accostamento alle imprese criminali dell’Anonima Sequestri (o delle cosche o delle ‘ ndrine), oggi tale preoccupazione non è più così attuale, superata dalla brutale evidenza delle foto segnaletiche di criminali stranieri con la pelle diversa dalla nostra: di conseguenza, non è sufficiente affidarsi alla deontologia professionale e ai codici di auto regolamentazione. Questi ultimi ci sono, sono strumenti preziosi e indicano criteri saggi da rispettare, così come va apprezzata l’attività di un organismo quale Carta di Roma, che si batte per l’onestà dell’informazione e contro la cialtronaggine del diabolico impasto tra ignoranza e intolleranza. Ma la questione va oltre e riguarda l’opinione pubblica e ciascuno di noi. Non esistono scorciatoie. I dati che ci consegnano le scienze sociali ed economiche sono inequivocabili: le fasi iniziali dei flussi migratori, in assenza di adeguate politiche di regolarizzazione e inclusione, producono ovunque un incremento dei crimini (è successo tra gli italiani a Düsseldorf e a Brooklyn): ed è altrettanto vero che l’immigrazione albanese e quella romena in Italia, dopo i primi anni di assestamento, ha visto ridursi i relativi tassi di criminalità. Dunque, non è negando la realtà ma approfondendo l’analisi (compresa quella sul tragico fallimento delle politiche proibizioniste in materia di sostanze stupefacenti), che è possibile acquisire consapevolezza e intelligenza politica. Fino a quando si trascurerà il fatto che un crimine è un crimine, che un criminale è un criminale, qualunque sia la sua nazionalità e la sua origine sociale e che una vittima è sempre una vittima da piangere; fino a quando, cioè, un delitto sarà considerato per la sua matrice etnica e non per le cause che lo originano – il mercato criminale dove prospera, il clima di insicurezza nel quale matura, l’impotenza delle misure di prevenzione e di controllo – la politica del ministro dell’interno – al di là dei suoi tonitruanti proclami – è destinata a fallire ed è già fallita. E questo in un Paese dove, ricordiamolo, il numero degli omicidi volontari nel corso dell’ultimo quarto di secolo si è ridotto di oltre l’80%. E parallelamente è cresciuta l’intolleranza etnica. Attenzione, qualcuno sta imbrogliando le carte.