Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 27 Sabato calendario

Avevano minigonne cortissime su belle gambe tornite. Erano le prime che uscivano con chi volevano, tornavano tardi, parlavano come uomini

Milano, luglio. La mattina in questi giorni vado a fare un day hospital in un ospedale brianzolo. È bello, nel verde, luminoso. Infermieri e medici efficienti e gentili. Ma per fare la mia terapia devo passare attraverso il reparto di oncologia. Io non ho quel male, ma già la scritta su una porta grigia fa venire a galla in me ricordi remoti eppure incancellabili. Prima ancora però che la vista, è l’olfatto che mi fa sussultare: come lo riconosco, quell’odore di disinfettanti e medicinali che colma le stanze linde. Già quello è un codice: il codice della sofferenza.Passo veloce, con la mia cartella clinica sottobraccio. Forse troppo veloce, mi dico, sentendo nell’eco dei miei passi un’ombra di spavento. È che non riesco a non gettare, fugace, a ogni porta aperta, un’occhiata ai pazienti. Non riesco a non soffermarmi sulle sagome magre e immobili sotto le lenzuola, e soprattutto sugli occhi, alle otto del mattino spalancati, vigili, come in attesa. C’è una parte di me che vorrebbe fermarsi, scambiare un buongiorno, ma temo di essere indiscreta. O forse semplicemente ho paura. È che queste malate di cancro, hanno forse dieci o quindici anni più di me.
Sono dunque le ragazze che a 13 anni vedevo sfrecciare per le strade in moto, felici, abbracciate a barbuti fidanzati. Avevano i capelli lunghi e rossi di hennè, focato marchio di femminea rivoluzione. Avevano minigonne cortissime su belle gambe tornite, che io invidiavo, magra e sparuta come ero ancora. Erano le prime ragazze che uscivano con chi volevano, tornavano tardi, parlavano come gli uomini. Non sapevo quale metamorfosi avrebbero compiuto tra noi. Ma nella mia immaginazione, ancora bambina, mi parevano giovani guerriere. E credevo, ero certa che sarebbero rimaste giovani per sempre.
Ho negli occhi come fosse ieri, mentre passo in fretta in questo corridoio bianco, il bel viso della rossa Zaira, giovanissima infermiera in un ospedale milanese in cui mia sorella era ricoverata. Io avevo allora 8 anni, lei 19. Aveva grandi occhi curiosi, denti candidi da giovane lupa, gambe da gazzella. La sera prima di uscire dal gineceo dell’internato femminile si metteva il rimmel, e un profumo sensuale la seguiva come un’ombra, mentre sui tacchi alti marciava verso l’uscita. Fuori, l’aspettava sempre un bel ragazzo.
Tornava tardi, l’ultima di tutte, col suo passo da regina. Il mattino dopo, con la cuffia candida, avrebbe assistito, sorridente, gli anziani malati oncologici. Era però evidente che lei apparteneva a un altro mondo, che lei non sarebbe mai diventata così. Io ne ero certa, Zaira, che tu e le altre coi capelli color fiamma, sareste rimaste uguali.
E ora invece chi siete, pallide in letti da cui non sapete alzarvi da sole, i capelli radi, tese a sentire il passo di una figlia che venga a aiutarvi a lavarvi? Oppure, non avete nessuno? Nei nostri occhi che brevemente si incrociano mi pare di leggere smarrite domande: ti ricordi, di come eravamo fiere di «gestirci noi», di come non avevamo paura di niente? Le fanciulle di cinquanta anni fa, inseguite, raggiunte, giacciono silenziose nei loro letti. Come avendo cognizione ora di un’altra legge, dolorosa e immensa, cui ci si deve inchinare. Sta in un «sì» o in un «no» la differenza vera, e, forse, la pace? Io supero ogni porta, e ogni volta fra me grido un «no». No, finire così non voglio. Non lentamente, non inchiodata a un letto. Tanto lontana ancora sono, dall’accettare mitemente il mio destino. Quale che sia. Dal farmi, col mio corpo, solo povero pane, da spezzare insieme agli altri.