Corriere della Sera, 28 luglio 2019
Intervista a Nicola Pietrangeli
«Ogni sera gli rivolgo un saluto. Era un gatto fantastico, generoso compagno di vita per vent’anni. Non mi ha mai mollato finché ho dovuto sopprimerlo. Uno strazio terribile. Farlo cremare per tenerlo accanto a me è costato 700 euro. Avrei speso la metà se avessi aspettato che arrivassero altri gatti da unire a lui nel forno. Ma io volevo che le ceneri fossero sue e basta». Nicola Pietrangeli solleva delicatamente il coperchio della coppa più bella. Quella d’argento vinta a Montecarlo, regalata a lui per sempre dal principe Ranieri. Ne estrae i resti di Pupino, racchiusi in un sacchettino rosso. Abita all’ultimo piano di una palazzina in un comprensorio nel quartiere Balduina, arredato del suo passato tutto sport e viaggi. Al posto di Pupino c’è Pupina 2 che avanza sinuosa tra tappeti e bassi tavoloni ingombri di coppe e targhe.
Se la sua vita fosse un film come lo intitolerebbe?
«Nicola contro Pietrangeli e costerebbe un botto produrlo, c’è troppo da raccontare. Dentro di me c’era abbastanza atleta e abbastanza buon mascalzone. Un continuo contrasto. Dicono che se mi fossi allenato poco di più avrei vinto molto. Ma non mi sarei divertito».
Che bambino è stato Nicola?
«Sereno. Parlavo russo, la lingua di mamma, e francese. Mai sofferto la fame, mai mancato nulla anche a livello affettivo pur non andando d’accordo con papà Guido, colpevole di avermi messo la racchetta in mano. Quando siamo venuti a Roma da Tunisi non spiccicavo una parola di italiano. Andammo ad abitare in via delle Carrozze e subito diventai popolare per il pallone. Gli amici mi chiamavano Er Francia. Cenavo alle 8 e poi scendevo per la partita serale a piazza di Spagna. Giocavo a tennis sui campi del circolo Venturini e al Tennis Club Parioli, ma questa è storia nota, riportata in tutte le biografie».
E il Pietrangeli playboy? Leggenda?
«Ho avuto quattro storie che contano. Susanna, che poi ho sposato, non era bella. Di più. Sua madre non voleva che mi frequentasse perché sperava per la figlia in un uomo ricco. Io non lo ero, non lo sono mai stato. All’epoca giravo in tram e bus. Gli uomini morivano per lei, uno le regalò un brillante grosso come una casa che lei gli restituì. Voleva me. Mi sposai a 27 anni per amore e sottile ripicca nei confronti della madre arrampicatrice. Abbiamo avuto tre figli Marco, Giorgio e Filippo. Fedele io? No, ma per nulla al mondo avrei messo a rischio la famiglia».
E dopo Susanna?
«La storia del playboy è un po’ romanzata. Sì, è vero, amavo accompagnarmi a belle donne, però non lo facevo per interesse anche se ho avuto diverse occasioni per attaccare il sombrero con compagne ricchissime. A me i soldi non interessavano. Dopo Susanna, è arrivata Lorenza, indossatrice milanese. Non volevo sposarmi e mi lasciò. Sempre lasciato, io. Poi ecco Licia Colò. Cinque anni di splendida convivenza. Aveva 30 anni meno di me. Quando mi ha lasciato mi ha giurato che non lo faceva per un altro. Forse si è spaventata della mia età ed è comprensibile. Dicono che quando vuoi le belle devi mettere in conto che gli altri ne siano a caccia. Ho sofferto molto».
E ora Paola. Com’è l’amore dopo gli 80?
«C’è grande affetto. Devi essere paziente tu e lei. Oltre all’amore è necessaria tanta comprensione reciproca altrimenti non vai da nessuna parte. Non viviamo insieme, ma condividiamo parecchie cose, anche Pupina Due».
È vicino agli 86, ci pensa alla morte?
«Sì, ogni tanto. Spero di morire la notte e all’improvviso, mi spaventa la malattia. La mia è un’età per morire. Il mio funerale si terrà al campo centrale del Foro Italico, a me intitolato. Ho già chiesto il permesso al presidente del Coni, il mio amico Giovanni Malagò. C’è un ampio parcheggio e nessuno potrà accampare la scusa di non aver trovato posto per la macchina. In caso di pioggia si rimanda al giorno dopo e speriamo che all’Olimpico non giochi la Lazio altrimenti ci sarebbe confusione e magari qualcuno preferirebbe andare là. Io e il mio amico Remo Zenobi partecipiamo ai funerali solo se lo sentiamo, non per fare passerella come la metà della gente. Veniamo via 5 minuti prima per evitare le facce da circostanza. Al mio però venite tutti, vi voglio numerosi e restate fino alla fine».
Mai in politica, perché?
«Mai fregato niente, eppure giocavo a tennis con La Malfa e frequentavo Renato Altissimo. Ho fatto politica solo quando si trattò di spingere come capitano della squadra per andare a giocare la finale di Coppa Davis a Santiago del Cile nel 1976 dove c’era appena stata la repressione di Pinochet. Pensavo che l’Italia non avrebbe dovuto mancare. Vinsi io. Ci siamo imbarcati di nascosto, come delinquenti.Quando siamo tornati con la Coppa, a festeggiarci c’erano solo i poliziotti».
È lei il più grande tennista italiano della storia?
«Di gran lunga. Panatta, con più talento, è durato molto meno ai vertici. Ora il più forte è Fabio Fognini. Una volta mi incontra e mi fa, sfottendomi, ehi Nicola, ai tempi tuoi correvi quanto me? Io non correvo, gli rispondo. Facevo correre gli altri».