Corriere della Sera, 28 luglio 2019
Le nuove baby gang
«Quando siamo andati a prenderli nessuno si è messo a piangere o si è disperato. Noi a dire “prepara la borsa, ti portiamo in carcere” e loro a rispondere “ok, va bene”. Imitavano scene viste nei film, ma quella era la realtà, la loro vita...». Il capitato Antonio Stanizzi comanda la compagnia dei carabinieri di Vimercate (Monza) e i suoi uomini, nei giorni scorsi, hanno arrestato quattro minorenni fra i 14 e i 16 anni. Sono proprio loro quelli che «ok, va bene», sottotitolo: il carcere non mi fa paura. Facce da bambini e desiderio di sopraffazione.
Sono accusati di 12 rapine aggravate e di un furto ai danni di coetanei, scelti tutti per fragilità, isolati, presi a calci e pugni e rapinati di pochi euro, del cellulare. «Il più giovane dei quattro – dice il capitano – aveva 13 anni quando abbiamo avviato le indagini ed era già il più attivo del gruppo».
Baby gang, così le chiamano. E, a giudicare dal numero dei casi che la cronaca racconta, sembrano moltiplicarsi. L’ultimo dato disponibile è del 2017: quell’anno il 6,5% dei ragazzi fra gli 11 e i 19 anni si sono dichiarati parte di una baby gang nel questionario dell’Osservatorio nazionale per l’adolescenza diretto dalla psicoterapeuta Maura Manca.
Ma chi lavora ogni giorno con gli adolescenti fa dei distinguo. Una baby gang è un gruppo di ragazzini che si coalizza in nome della microcriminalità, con atteggiamenti organizzati, intenzionali, ripetuti. Adolescenti che vivono di piccolo spaccio, furtarelli, rapine, che rispondono a un capo. Ciascuno con una identità criminale singola e – assieme – con un territorio di «caccia» che difendono da gang rivali.
Altro è invece quel tipo di aggregazione fra giovanissimi che tutti chiamiamo comunque baby gang e che però non ha niente a che vedere con la struttura organizzata di una gang. «È questo il fenomeno più preoccupante e crescente», riflette la dottoressa Maura Manca. «Noi non le chiamiamo gang ma bande giovanili: ragazzi che si riconoscono in un modo di essere di passare il tempo, che quando si muovono all’unisono creano un “io” di gruppo capace di comportamenti devianti che ciascuno da solo non avrebbe mai. Se fra loro una parte decide l’azione, gli altri lo seguono. Il caso di Manduria è un esempio perfetto di banda giovanile».
A Manduria, pochi mesi fa, la vittima fu Antonio Stano, un pover’uomo di 66 anni dalla mente malata, bullizzato, deriso, offeso, umiliato da ragazzini che si divertivano tormentandolo.
Vista dalla vittima ovviamente poco importa che ad agire sia stata una gang o una banda di giovani. L’esito è lo stesso. «Cambia però la valutazione a livello clinico e cambiano le scelte sul tipo di intervento da adottare», dice sempre Maura Manca. Come si è modificato il fenomeno negli anni? «In due modi», risponde. «Aumenta sempre più l’uso di armi come coltelli o manganelli: i nostri dati ci dicono che nel 2018 l’8% dei ragazzi fra 11 e 19 anni ha usato un’arma. E poi si è abbassata l’età di chi ha comportamenti devianti: oggi sono crescenti casi di bambini di 9-10 anni».
Ciro Cascone, a capo della procura per i minori di Milano che ogni anno valuta la sorte di circa 5000 ragazzi, punta sull’«intervenire subito con misure cautelari. Ci sono comportamenti antisociali che vanno bloccati sul nascere perché è più facile che così capiscano il disvalore di quello che hanno fatto». Anche lui, che con i minorenni ha a che fare da molti anni, ha notato «un preoccupante abbassamento dell’età» fra chi commette reati. E sarebbe pronto a scommettere che c’è anche un legame fra il tasso di scolarizzazione e la propensione a delinquere. I dati oggi non ci sono «ma io ricordo – racconta – una ricerca di tanti anni fa che diceva esattamente questo: più scuola meno reati, e viceversa».
I ragazzini arrestati dal capitano Stanizzi a Vimercate, per esempio: il quattordicenne non ha nemmeno finito la scuola dell’obbligo. E certo non hanno una buona carriera scolastica gli adolescenti fra i 13 e i 18 anni che in questi mesi hanno imperversato nell’area Venezia-Mestre- Marghera. In un caso hanno massacrato di botte un ragazzo fino a fargli rischiare la paralisi. E poi la spedizione punitiva dei 30 giovani e giovanissimi che l’altro giorno se la sono presa con i bagnini di Jesolo colpevoli di averli fatti spostare dall’arenile. Altri episodi a Napoli, Pordenone, Cremona...
Il procuratore Cascone la riassume così: «Il vuoto», e parla di vuoto educativo. A volte chiede al ragazzo di turno: «Ti rendi conto di quello che hai fatto?». Lui biascica qualcosa, parole vuote, appunto. Quasi sempre se ne rende conto, sì. Ma non ne capisce il disvalore.