Corriere della Sera, 28 luglio 2019
Per gli italiani la corruzione non è calata da Manipulite
La scomparsa del procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli ha riportato alla memoria collettiva l’inchiesta Mani pulite e, più in generale, la stagione di Tangentopoli, che ebbe un elevato impatto mediatico suscitando un vero e proprio choc nel Paese, unitamente a un’ondata di riprovazione e di sdegno. A distanza di tempo, due italiani su tre (67%) ritengono che Mani pulite rappresentò un’azione positiva per l’Italia, l’8% è di parere opposto e il 25% non si esprime: a sospendere il giudizio sono soprattutto i più giovani (18-30 anni), che non vissero quella stagione.
Le aspettative di debellare la corruzione nella politica alimentate in quella stagione sono state largamente disattese, infatti il 50% dell’opinione pubblica è convinto che la corruzione nel settore pubblico e nella politica oggi sia diffusa come allora e uno su tre (34%) è del parere che sia ancor più diffusa rispetto agli anni 90.
Inoltre, secondo il 48% è un fenomeno che riguarda prevalentemente la politica nazionale e i grandi appalti mentre il 31% è del parere che la corruzione sia diffusa capillarmente, annidandosi soprattutto in ambito locale.
Allora come oggi si dibatte delle responsabilità: sono i politici che impongono le tangenti per arricchirsi o gli imprenditori che corrompono i politici per ottenere appalti e fare affari? Due italiani su tre (68%) attribuiscono le responsabilità a entrambi, il 19% è del parere che nella maggior parte dei casi siano soprattutto i politici a imporre le condotte illecite, mentre solo il 2% ritiene che siano gli imprenditori. La corruzione è tra i motivi principali del discredito verso la politica, non a caso la fiducia nei partiti, che si attesta al 15%, da tempo è all’ultimo posto nella graduatoria della fiducia nelle istituzioni.
Infine, rispetto all’azione della magistratura contro la corruzione prevale l’idea che sia spesso troppo indulgente nei confronti della politica (44%), mentre il 5% è di parere opposto e ritiene che sia eccessiva e persecutoria; nel complesso solo il 14% ritiene che sia quasi sempre corretta e il 20% pensa che sia talora corretta e talora eccessivamente persecutoria.
Se all’epoca di Tangentopoli, sull’onda dell’indignazione, la magistratura era sostenuta da un elevato consenso popolare e i magistrati del pool di Milano guidati da Borrelli erano considerati alla stregua di veri e propri eroi, oggi le cose sono cambiate: come abbiamo visto nel sondaggio pubblicato a fine giugno dopo la vicenda Palamara-Csm, solo il 35% dichiara di avere fiducia nella magistratura.
Insomma, quella della corruzione è una storia infinita: la maggior parte degli italiani è convinta che non sia cambiato nulla dai tempi di Mani pulite e oggi sia diffusa come allora, se non di più; e agli occhi dei cittadini sul banco degli imputati finiscono non solo politici e imprenditori, ma anche la magistratura, considerata troppo indulgente o, al contrario, politicizzata.
Oggi come allora prevale uno spirito giustizialista ma, mentre all’epoca di Tangentopoli il giustizialismo fu sostenuto dall’aspettativa di archiviare la Prima Repubblica e favorire il cambiamento della classe politica e dei partiti, dalla Seconda Repubblica in poi il giustizialismo è diventato asimmetrico e intermittente sia tra i politici sia nell’opinione pubblica, facendo prevalere lo spirito del tifoso. Infatti, quando le accuse di corruzione riguardano direttamente gli esponenti del proprio partito sono considerate una sorta di complotto, un’invasione di campo, un atto politico architettato da un soggetto che, viceversa, dovrebbe essere super partes. Oppure sono guardate con indulgenza, nella convinzione che, comunque, la corruzione riguarda tutti i partiti, non solo il proprio.
Le parole che hanno accompagnato le dimissioni di Raffaele Cantone dalla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione rappresentano un elemento di ulteriore criticità laddove, sottolineando i risultati positivi ottenuti, sostiene che «l’Autorità rappresenta un patrimonio del Paese, diventato un modello di riferimento anche all’estero, ma si è concluso un ciclo e si è manifestato un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo». Sono parole che fanno riflettere.