Robinson, 27 luglio 2019
Intervista a Shel Shapiro
Spettacoli Musica non classica
Un artista si muove come dentro un palazzo di venti piani. Quando arriva in cima ha la sensazione di vedere l’intero mondo attorno a sé. E pensa ce l’ho fatta. Ma per quanto? «Più in alto sei e più cresce la possibilità di perdersi. Non è vero che il successo sia una medicina. Più spesso è una droga». Mentre guardo la faccia da pirata di Shel Shapiro, immagino che i molti piani della sua vita se li è fatti tutti, ma proprio tutti: con rapidità, tenacia, a volte arrancando, in gruppo e da solo: «Sono ancora lì, mi piace esserci, senza la frenesia di una volta. Anche adesso che sono in tour con Maurizio Vandelli, un tempo rivali oggi insieme, ho la sensazione che l’età sia solo un fatto anagrafico e non di testa». Sei nato durante la guerra. «Sotto le bombe di Paddington, in una Londra allo stremo. Però mai nessuna città ha saputo rivelare lo stesso grande orgoglio che contraddistinse Londra in quel periodo». Il tuo nome Shapiro che origini ha? «Le radici sono ebree sefardite. Il nome è portoghese, penisola iberica. Mi hanno raccontato di pogrom che l’Inquisizione spagnola allestì contro gli ebrei. Molti fuggirono verso l’Europa centrale. La mia famiglia finì tra l’Ucraina e la Georgia». Come arrivò in Inghilterra? «Mio nonno suonava il corno nella banda dello Zar Nicola II. E aveva un parente in Inghilterra. Era quasi impossibile emigrare. Ma la zarina in persona firmò il lasciapassare provvisorio. Partirono tutti e non fecero mai più ritorno». Sei un inglese anomalo. «Vivo da più di mezzo secolo in Italia, con dei lunghi intervalli durante i quali ho soggiornato negli Stati Uniti e in Messico». La tua cultura musicale si è formata in Inghilterra. «A sei anni presi le prime lezioni di piano. Lo strumento era in casa. Poi un giorno mio padre si presentò con una chitarra che era costata, mi disse, cinque sterline. Allora erano molti soldi. Cominciai a strimpellarla. Erano i primi anni Cinquanta. Il mondo musicale stava conoscendo una delle più radicali trasformazioni». Ti riferisci al rock? «In larga parte sì. Le voci di Elvis Presley, di Bill Haley e Jerry Lee Lewis ma anche quelle di Chuck Berry e Ray Charles si diffusero in Inghilterra. Ne imitavo lo stile davanti allo specchio e capivo che la loro forza era tutta semplicità e immediatezza». Poi è arrivato Bob Dylan? «Rispetto al rock, Dylan ha rappresentato un altro tipo di ascolto, più attento al messaggio. Cambiò i testi della musica servendosi dei poeti della beat generation. All’inizio non mi emozionò. Non capii l’impatto che avrebbe avuto su tutta la musica successiva». Te ne sei pentito? «No, ogni cosa deve avere i tempi della maturazione personale. Per me in quegli anni c’erano i Beach Boys, e l’esperienza conturbante dei Beatles e dei Rolling Stones». Chi preferivi? «I Beatles sono stati la storia, i Rolling furono la fuga nel domani. I Beatles cambiarono il mondo nelle regole; i Rolling lo trasformarono contro le regole: “Baby”, diceva una loro canzone, “lo so quello che vuoi ed è la stessa cosa che voglio io"». Su questo inquieto sfondo musicale tu che fai? «Mi organizzo. Metto su un gruppo musicale. A tredici anni avevo già una piccola band fatta con gli amici della sinagoga. Suonavamo nei vari bar mitzvah e alle feste studentesche. Era ancora il periodo dei crooners. Le musiche di Bing Crosby e Perry Como accompagnavano il taglio delle torte nuziali. Cominciammo a sparare il rock’n’roll. A raffica. Fu l’esordio. Indimenticabile». E dopo? «Cominciò un vago professionismo. Allestii un gruppo che chiamammo “Shel Carson Combo” e ci invitarono a suonare ad Amburgo. Avevo 17 anni. Era il 1960. Pochi mesi prima in quella tristissima città si erano esibiti i Beatles. Suonarono in un localino poco distante dal quartiere a luci rosse. Nessuno poteva allora immaginare che sarebbero diventati leggenda». Quali pensieri ti induce? «Ogni riflessione su questo non può che essere successiva. Di quell’esperienza ricordo il freddo, la nebbia, una cazzo di umidità che si infilava nei nostri indumenti leggeri. La città era terribile. La Germania ancora non decollava e noi suonavamo per pochi marchi. Tornammo altre volte. Poi nel 1963 ricevemmo una proposta per un tour in Italia. Dovevamo accompagnare un certo Colin Hicks. Arrivammo a Milano. Rispetto a Londra, era davvero un altro mondo. Sembravamo esotici. Capelli lunghi. Sguardo perso e abiti attillati. Eravamo la sola cosa colorata in una città fondamentalmente grigia. Fu la nostra fortuna. Stava arrivando il nostro momento». L’Italia come terra di conquista? «Come terra da esplorare. Cambiammo nome e decidemmo di stabilirci a Roma. Diventammo “The Rokes”. Riempivamo le sale e i discografici cominciavano a guardarci con occhi diversi. Il successo vero arrivò con l’apertura del Piper nel 1964. Era un enorme seminterrato al quartiere Trieste. La scenografia dietro il palco fu allestita con opere di Warhol, Schifano, Rotella. Mi ricordo perfino di un Rauschenberg. Le luci erano all’avanguardia. Tutto l’ambiente straripante. Ci spartimmo il successo con l’Equipe 84». Il vostro successo, quanto durò? «Fino al 1970. Eravamo costantemente nelle hit parade, in televisione, perfino al festival di Sanremo. Canzoni come Ma che colpa abbiamo noi, La pioggia che va o Bisogna saper perdere erano ascoltate dai nostri fan come messaggi per capire il mondo che stava cambiando». Tu ci credevi? «Pensavo che fosse il vento giusto. Non importa se erano canzonette. Le parole erano semplici, dicevano: non ci piace questa società». Però vi ci trovavate bene. «È la contraddizione della star. I Beatles giravano con la Rolls Royce. Io giravo con la Rolls Royce: ci davo dentro con il bere, fumavo marijuana e scopavo sul sedile posteriore della Rolls. Volevamo la rivoluzione senza rinunciare ai privilegi. Diciamo la verità: non poteva durare». Poi nel 1970 che cosa accade? «Sciolsi il gruppo. Mi tolsi i panni della rockstar e ricominciai da capo. Ho scritto canzoni e fatto il produttore per artisti come Mina, Cocciante, Patty Pravo e soprattutto Mia Martini, la più grande voce femminile che l’Italia abbia mai avuto». Tu perché avevi deciso di smettere di cantare? «Non c’è mai una sola ragione. Pensavo che sarebbe stata dura conservare il successo di quegli anni e poi non è gradevole pensare che qualcuno ti volta le spalle. Meglio precederli. Mi ero, oltretutto, sposato. Aspiravo a una vita più quieta». Come hai vissuto la morte di Mia Martini? «Come un torto, una grande ingiustizia. Un giorno mi disse: Shel tu non sai cosa provo ogni volta che entro in una sala e vedo con la coda dell’occhio la gente che si tocca e fa gli scongiuri. Seppi solo molti giorni dopo della sua morte. Ero in Francia, irrintracciabile. La stupidità e la cattiveria purtroppo non hanno limiti». Di ferite tu ne hai avute anche personali. «Se alludi a mia moglie e al fatto che si sia tolta la vita, sì. Per me è stato come essere investito da un treno». Ti sei dato una spiegazione? «Tutte le spiegazioni del mondo non sono sufficienti per comprendere un gesto così estremo. Era dentro un dolore più grande di lei. Così invasivo da divorarla giorno per giorno. Era come se gli anni della felicità, di una donna bella e intelligente, fossero spariti. Lasciandola sola e inerme». Può aver influito la vostra separazione? «Migliaia di coppie si separano, non per questo la gente si suicida. No. Penso che qualcosa di maledettamente profondo abbia agito su quella decisione. Ne parlai a lungo con nostra figlia Malindi, allora quattordicenne. Elaborai con lei la tragedia, sapendo che sarebbe stato un peso che avrebbe cambiato la mia vita». Che cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto? «Per un lungo periodo ho vissuto con il bisogno impellente di vomitare tutto quello che avevo dentro. È stato il modo per purificarmi. Forse di crescere. Lontano dai mitici anni Sessanta». Quegli anni tu li hai per così dire rielaborati in una collaborazione con Edmondo Berselli che, tra le altre cose, fu anche firma importante di “Repubblica”. «A Eddy piaceva occuparsi non solo di politica ma anche di musica e amava farlo in modo originale. Penso sia stato uno degli uomini più intelligenti che abbia conosciuto. Era un intellettuale raffinato che non faceva pesare minimamente il suo ruolo. Poteva stare un paio di miglia davanti a te e farti credere che tu gli eri accanto. Questo è stato Eddy. E la nostra amicizia, nata per caso, fu per me una benedizione». Perché? «Mise la sua intelligenza a mia disposizione. Mi convinse a disseppellire gli anni Sessanta. Non volevo saperne. Colse la bontà del progetto e realizzammo Sarà una bella società. Niente di nostalgico, ma un attraversamento culturale di un periodo che effettivamente ha cambiato l’Occidente». Che anno era? «Era già il 2007. Mi fu proposto da Mario Corvino come una memoria sul Sessantotto. La prima reazione fu: cazzo, ancora con ’sti anni Sessanta! Non se ne può più. Poi ne parlai a Eddy e lui, a sorpresa, disse che a certe condizioni si poteva fare. Aveva ragione. Venne fuori una specie di commedia musicale. Girammo l’Italia con lo spettacolo. Per me fu una rinascita». Dov’eri morto? «In tante situazioni. Dopo gli anni Ottanta passati tra la Spagna, il Messico e Miami arrivarono i duri anni Novanta. Dopo la scomparsa di Mariolina, dopo la fine del rapporto con Cristina, da cui avevo avuto altri due figli, mi sentivo nella classica situazione del che ci faccio io qui? Nel 1998 arrivò la depressione. Passavo intere giornate a non far niente, a piangere o seduto davanti a uno schermo spento». Come l’hai superata? «C’è una componente vittimistica nella depressione. Pensi che il mondo ti sia crollato addosso e invece è lì che se ne frega di te. Reagisci facendo cose. Ho cantato, ho prodotto, ho scritto, ho perfino recitato. Mi sono aggrappato a ogni forma d’arte, sapendo che non sarebbe stato più come la prima volta». Che cosa intendi? «La macchina dello spettacolo prevede pochi posti in cima. Un giorno sei su poi scendi. A volte risali, ma è più difficile. Ti interroghi. Ti chiedi dove hai sbagliato. Non hai sbagliato un cazzo. Sei solo passato di moda. E non c’entra la legge dei numeri. C’entra che sei tagliato fuori, più o meno da tutto. Improvvisamente ti rendi conto di non essere più sul libro paga della fortuna. Se lo metti in conto ti puoi ancora salvare». Non ho capito se in tutto questo ti accetti. «Mi chiamo Norman David, ma tutti mi chiamano Shel. E l’ho accettato. Per amore della musica e di un mestiere che continua a piacermi. A volte però vengo preso dal dubbio di non aver realizzato molto nella vita. Da giovane volevo diventare medico. Forse sarei stato un dottore migliore di quanto sia stato un musicista. Ma questa continua a essere la mia vita. Amo la musica, amo i miei figli e la mia compagna. Non mi sento vecchio. Ma non faccio niente per togliermi gli anni che ho. Cerco un equilibrio che non scada nel patetico. Certe volte mi dico: non sei mai stato una leggenda. Ma quasi una leggenda».