Robinson, 27 luglio 2019
Muti su von Karajan
Spettacoli musica classica
Riccardo Muti guida con acutezza verbale, profonda sapienza musicale e sapido umorismo (l’aneddotica esilarante allevia l’impegno serrato e rigoroso) giornate di lezioni (aperte al pubblico che riempie la platea del Teatro Alighieri di Ravenna) sul significato, la tecnica e la sostanza misteriosa del dirigere un’orchestra. Che in questo caso è la sua Giovanile Cherubini, «progetto nato nel 2004, composto da giovani che cambiano ogni tre anni e formato per plasmare l’identità anche etica di una professione da vivere come un privilegio», ci dirà Muti, sottolineando che numerosi musicisti passati attraverso l’esperienza della Cherubini suonano oggi in compagini internazionali. Siamo nel pieno del periodo da lui annualmente dedicato all’Italian Opera Academy (fino al 2 agosto), iniziativa giunta alla quinta edizione. Stavolta il corso, concentrato su cinque maestri del podio a inizio carriera, selezionati fra centinaia di aspiranti nel pianeta, si vota all’indagine delle Nozze di Figaro di Mozart. Magnetico è lo spettacolo delle istruzioni impartite dal glorioso docente, dei suoi densi ritmi pedagogici, della sua scomposizione trasparente dell’edificio operistico, di un’analisi che penetra con scavo certosino tutti i momenti strumentali e vocali della partitura. Ci si tuffa in ogni cellula dell’opera e quando si riemerge se ne afferra un’altra che s’assembla con la precedente e la successiva. Una fucina, un viaggio, un’avventura. E un’occasione per parlare di un mestiere affascinante nell’anno in cui cade il trentennio della morte di un leggendario esponente della categoria, Herbert von Karajan, avvenuta il 16 luglio 1989 ad Anif, vicino a Salisburgo, dov’era nato nel 1908. «Karajan m’invitò a dirigere nel festival salisburghese fin dal ‘71», ricorda Muti, che da allora in poi è stato presente a Salisburgo ogni estate e quasi approda al mezzo secolo di partecipazione al festival, il che è un primato assoluto per un direttore. Pochi giorni dopo la scomparsa di quel Re Sole della musica, fu Muti a condurre, il 23 luglio, il Requiem di Mozart nel Duomo di Salisburgo come tributo al memorabile collega. Quest’anno Muti celebrerà Karajan nel festival austriaco rendendogli onore, a capo dei Wiener Philharmoniker (13, 15 e 17 agosto), col Requiem di Verdi. «Diressi lo stesso brano a Salisburgo a fine agosto dell’89 con i Berliner Philharmoniker, che dal ’55 erano stati l’orchestra di Karajan», riferisce Muti. «Fu lo stesso Karajan a scegliermi per quell’occasione. A Pasqua s’era consumata la sua rottura con il suo complesso berlinese e mi aveva chiamato per dirmi: vorrei che in estate fossi tu a dirigere i Berliner nel Requiem al mio posto». Chi è stato Karajan, secondo Riccardo Muti? «Uno dei tre direttori fondamentali degli ultimi decenni. Toscanini è l’adesione al testo e l’instancabile perfezionismo. Furtwängler è la capacità d’immettere l’inatteso nell’esecuzione e un’estemporaneità che fiorisce su base solida. Karajan è la rivoluzione del suono, la sua magnificenza. Non prescindeva mai da un’ineffabile, ammaliante beltà sonora. Con lui l’orchestra cantava come una voce umana, e i Wiener hanno mantenuto questa magica facoltà». Wiener e Berliner furono i suoi due grandi amori. «Rese celebri i Berliner con dischi, film, tournée… Grazie a lui divennero star. Quanto al suonare come cantando, è a tutt’oggi una cifra inconfondibile dei Wiener, nel segno del suono di Karajan». Che fu da molti venerato, ma reputato da altri di voluttuosità calcolata e artificiale. «Solo nell’ultima fase delle sue esecuzioni una coltre sonora uniformante rivestiva compositori diversi per epoca e linguaggio. Stravinskij non amava il Sacre du printemps diretto da Karajan: lo considerava smussato, edulcorato da punte telluriche. Inoltre il suo Haydn e il suo Mozart paiono rivestiti da una patina romantica che ora può sembrare obsoleta. Però bisogna tener conto del fatto che Karajan viene da un mondo che precede i movimenti cosiddetti filologici. Non prevedeva affatto le interpretazioni di alcuni contemporanei gruppi barocchi d’oltralpe, che a mio parere risultano spesso irritanti. Certi fondamentalismi esecutivi tolgono passione e vitalità alla musica». Qualcuno afferma che Karajan fu un despota che alimentò il mito del maestro come “signore del mondo” stigmatizzato da Elias Canetti. C’è del vero in quest’immagine autocratica? «Stimo immensamente il musicista Karajan, che mi ha donato alcuni degli ascolti più belli della mia vita, e penso sia necessario sfatare pregiudizi. Non fu un uomo altero e si dimostrò generoso. Aiutò giovani direttori, sostenne cantanti. Sapeva riconoscere la grandezza dei colleghi. Aveva nel suo studio una foto di Toscanini e ammirava Antonio Guarnieri, direttore che non raggiunse mai una vasta popolarità poiché non usò i media. Una volta Karajan mi raccontò: entrando nel buio della Scala durante una prova, dal suono che usciva dalla buca avresti potuto dire ecco, sul podio c’è Guarnieri, e solo con Guarnieri ciò accadeva». Il fenomeno Karajan fu intensificato dal suo investimento sul connubio arte-tecnologia. Circolano più che mai le sue incisioni: la Deutsche Grammophon ha pubblicato due cofanetti, Decca presenta un box di 34 cd in settembre e Repubblica-L’Espresso sta proponendo in edicola una collana di 20 cd. «Credo che con tutte le tecnologie di oggi, Karajan impazzirebbe di gioia. Adoperò a piene mani i nuovi mezzi: compact, tivù, filmati… Nutriva una fiducia entusiastica nelle possibilità degli strumenti di riproduzione moderni». E lei, maestro? Si fida della tecnologia? «Può essere utilissima in prospettiva educativa, ma è perniciosa se trasforma i dilettanti in divi. Una volta si conquistava la celebrità con lacrime e sangue, mentre oggi, tramite certe sofisticazioni tecnologiche, capita che si creino colossi costruendoli sulla sabbia».